In un mondo ove circa un miliardo di persone con disabilità affrontano quotidianamente la violazione dei loro diritti umani, come ha evidenziato la Convenzione ONU del 2006, esse necessitano di interventi volti a trasformare la percezione che hanno di se stesse e del mondo che le circonda e che ne rafforzino gli strumenti di autodifesa. Per questo è importante centrare le azioni di tutela dei loro diritti umani sull’empowerment, termine-chiave, sia in senso individuale che sociale e politico
Sono un miliardo le persone con disabilità che vivono sul nostro pianeta, il 15% della popolazione mondiale. Nei Paesi con scarsità di risorse, solo il 2% della popolazione con disabilità ha accesso ad interventi e servizi; la frequenza in una scuola è negata al 95% dei bambini con disabilità; l’accesso al lavoro è appannaggio di meno del 10% della popolazione potenziale.
Se guardiamo poi i dati europei, scopriamo che all’accesso negato ai diritti (alla mobilità, al lavoro ecc.), si sommano le discriminazioni: più del 60% dei bambini con disabilità frequenta classi o scuole speciali; le differenze di trattamento e l’ineguaglianza di opportunità nel campo dei trasporti, dell’accesso al lavoro, nel godimento di beni e servizi sono ancora la norma; l’istituzionalizzazione è ancora una politica importante degli Stati europei, visto che 500.000 persone con disabilità risultano vivere ancora in 2.500 mega istituti; la stessa cittadinanza europea è messa in discussione dall’impossibilità di muoversi liberamente nei 28 paesi dell’Unione.
La Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite del 2006 ha posto in evidenza che le persone con disabilità sono quotidianamente costrette ad affrontare la violazione dei loro diritti umani. La segregazione e l’approccio medicalizzante – che riduce una persona alla sua malattia – causano l’invisibilità di chi ha una disabilità, privandolo dei diritti di cittadinanza e impoverendolo, sia socialmente che individualmente. Ancora oggi, inoltre, le persone con disabilità sono discriminate e non godono di pari opportunità: il concetto di povertà, per loro, si estende a un trattamento diseguale che impoverisce la persona. Risulta così chiaro che la disabilità è causa ed effetto di povertà: causa perché se si possiede una caratteristica socialmente dimenticata si è esclusi dalla società, ed effetto perché se si è poveri spesso si conseguono disabilità (di salute, di cultura, di genere ecc.).
Il circolo vizioso povertà-disabilità è tanto più vero nei Paesi in cerca di sviluppo, dove le persone con disabilità non accedono ai servizi essenziali (per la salute, l’educazione, il lavoro) e vengono sostanzialmente escluse dai benefìci dello sviluppo. Le barriere, gli ostacoli e le discriminazioni che incontrano tutti i giorni le impoveriscono nell’accesso a beni, servizi e diritti.
Risulta così evidente che le persone con disabilità necessitano di interventi che trasformino la percezione che hanno di se stesse e del mondo che le circonda e rafforzino i loro strumenti di autodifesa. Per questo è importante centrare le azioni di tutela dei loro diritti umani sull’empowerment.
Empowerment è un termine con due significati: il primo legato al rafforzamento delle capacità e delle competenze della persona, il secondo, invece, di tipo sociale, legato cioè all’acquisizione di potere attraverso la partecipazione alla vita della comunità. Le persone con disabilità hanno bisogno di ambedue i sostegni. Questi, insieme, producono una dinamica virtuosa: il rafforzamento delle capacità individuali, infatti, permette l’acquisizione di maggior potere per farsi includere nella società, promuovendo i propri diritti in prima persona e attraverso le organizzazioni di persone con disabilità e dei loro familiari.
Le continue violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti delle persone con disabilità spesso sono all’origine di un senso di inadeguatezza provato da queste stesse persone, come se dipendesse da loro l’incapacità di adattarsi alla società, a causa della propria condizione. Trasformare questa percezione è il primo obiettivo dell’empowerment, perché è solo a partire dalla consapevolezza della discriminazione e dell’oppressione causate dall’inadeguata organizzazione della società, che le persone con disabilità possono iniziare un percorso (individuale o sociale) di emancipazione.
Questo percorso di consapevolezza può essere sostenuto quasi esclusivamente da altre persone con disabilità a loro volta più consapevoli e tale intuizione è diventata uno strumento di azione e un vero e proprio lavoro politico e tecnico: la consulenza alla pari. Centrali nelle attività di empowerment sono infatti propri i consulenti alla pari, rispetto ai quali i riferimenti teorici si ritrovano già nella psicologia umanistica e in particolare nella cosiddetta “terapia fondata sul cliente” di Carl Rogers e Robert Carkhuff.
Secondo Rogers e Carkhuff, l’auto-aiuto tra pari è un efficacissimo strumento di lavoro, intendendo per “pari” qualcuno che è nella stessa situazione, che ha la stessa età, cultura o che ha avuto una stessa esperienza di vita. Nel caso delle persone con disabilità, un “pari” è appunto qualcuno che ha una disabilità.
I campi di utilizzo del consulente alla pari, nell’àmbito della disabilità, sono vasti: da quello del lavoro (nei centri per l’impiego) a quelli per la vita indipendente e la gestione dell’assistente personale (nei servizi sociali dei Comuni), da quelli dell’abilitazione (in centri riabilitativi) a quelli dell’acquisizione di competenze (per le licenze di guida, nautiche ecc.) e di crescita dell’autotutela (nelle associazioni).
L’inclusione sociale è un obiettivo che può essere conseguito solo attraverso il coinvolgimento diretto e consapevole delle stesse persone con disabilità e il consulente alla pari è una dimostrazione delle competenze delle persone con disabilità come “esperti della loro vita”. L’approccio di empowerment, infatti, si basa sul presupposto che chi ha una disabilità ha anche una grande esperienza – reale o potenziale – su come superare le barriere poste alla disabilità stessa.
Nella medesima direzione sono cresciute le esperienze di formazione all’autonomia e di sostegno alla libertà di espressione di bisogni e desideri di chi può autorappresentarsi solamente in alcuni campi della vita relazionale e sociale.
La RIDS [Rete Italiana Disabilità e Sviluppo, N.d.R.] ha identificato l’empowerment di coloro che sono stati esclusi, discriminati e cancellati dalla società quale migliore strategia per tutelare i diritti umani e generare un cambiamento: lo sviluppo delle società umane e il cambiamento sociale avviene non solo attraverso l’azione consapevole delle associazioni, ma anche tramite l’azione consapevole di ogni singola persona con disabilità, quando diviene capace di trasformare, nell’ambiente in cui vive, la visione culturale e sociale della disabilità. In altre parole, la società, come sosteneva Antonio Gramsci, «si cambia molecolarmente», e ognuno apporta il proprio contributo al superamento di pregiudizi e miti discriminatori.
Secondo questo concetto di empowerment, dunque, è compito dello Stato (e delle organizzazioni che si occupano di cooperazione allo sviluppo) includere tutti nei processi di decisione e di sviluppo e, nello stesso tempo, offrire a ognuno l’opportunità di accrescere le proprie capacità e la propria consapevolezza. Sviluppo inclusivo e partecipazione diretta alle decisioni, da parte delle persone beneficiarie, sono elementi essenziali per le società che tutelano i diritti umani.
Si possono pertanto distinguere l’empowerment individuale, l’empowerment sociale e l’empowerment politico.
L’empowerment individuale delle persone con disabilità riguarda vari aspetti:
° emotivi: riformulazione delle emozioni sul costruire e trasformare piuttosto che sul limitare e distruggere;
° percettivi: ridefinizione delle esperienze di vita sulla base del modello sociale della disabilità;
° intellettivi: comprensione degli strumenti culturali di cui dotarsi, apprendendone i linguaggi;
° comportamentali: trasformazione delle relazioni umane e sociali sulla base della nuova consapevolezza;
° abilitativi: apprendere a fare delle cose anche in modo diverso;
° informativi: conoscere e saper usare le leggi e le risorse del proprio territorio.
L’empowerment sociale riguarda invece la società nel suo complesso e le associazioni di persone con disabilità e delle loro famiglie, e nasce dalla constatazione che una delle cause dell’assenza o dell’inadeguatezza delle politiche sulla disabilità è dovuta proprio alla non valorizzazione e al mancato riconoscimento del ruolo di promozione e di tutela dei diritti svolto dalle associazioni delle persone con disabilità. Rafforzare queste associazioni, affinché possano confrontarsi con la società nel suo complesso, significa dare un contributo essenziale e imprescindibile all’inclusione sociale.
In àmbito poi di cooperazione internazionale, formare le Associazioni di persone con disabilità di un determinato Paese significa garantire la sostenibilità della Convenzione ONU attraverso la voce diretta di chi le rappresenta.
Empowerment individuale ed empowerment sociale sono due processi che si intersecano, e che non sono separabili.
L’empowerment politico, infine, riguarda il rafforzamento del ruolo delle organizzazioni di persone con disabilità nei processi decisionali che le riguardano, sviluppando le capacità di quelle stesse organizzazioni di avere un ruolo di advocacy [“tutela legale”, N.d.R.] nei riguardi delle istituzioni pubbliche e dei vari decisori politici e sociali.
I percorsi di empowerment e di crescita della consapevolezza dimostrano che è strategico trasformare il lavoro di chi fa cooperazione internazionale e investire sulle potenzialità delle persone e sul ruolo delle associazioni. Al contrario, riproporre vecchi modelli culturali, in cui il ruolo svolto dall’operatore dei servizi è solo di assistenza e cura, può ostacolare il processo di empowerment delle persone con disabilità.
In conclusione si può dire che l’empowerment è uno strumento universalmente valido per qualsiasi battaglia di emancipazione e rispetto dei diritti umani, perché è centrato sulla crescita di consapevolezza e di competenze delle persone e delle associazioni che le rappresentano.
Questo è il contributo che le persone con disabilità possono offrire alla crescita della democrazia e alla realizzazione di società realmente aperte e rispettose dei diritti umani, in tutti i Paesi del mondo.
Fonte: Superando.it
21/09/2015