Chantal è sorda. “Non posso dirlo a nessuno”. Il suo compagno la picchia, sempre e comunque. Solange è nata senza braccia e gambe. Un uomo, assurdo parlare di “fidanzato”, la violenta tutti i giorni. Anna è una ragazza con sindrome di Down. Ha un marito: l’ha sposata solo per ottenere il permesso di soggiorno. Le ripete: “Ti getterò nella spazzatura una volta che avrò ottenuto i documenti per restare in Francia”. Tre storie al limite che così al limite non sono. La violenza sulle donne con disabilità è una realtà diffusa e poco raccontata. Nasce dal fatto che in prevalenza non sia nemmeno riconosciuta. In una persona con disabilità si vede prima la sua condizione. Non donne, quindi, ma disabili prima di tutto. E dunque ecco il grande buco nel quale si cade: perché parlare di violenza di genere? E’ la seconda grande violenza su una donna con disabilità e il primo e grande salto culturale che deve essere fatto.
“La donna con disabilità dovrà passare la vita a gestire la sua disabilità, ma non a gestire la sua femminilità. Tuttavia se non si parte dall’educazione al proprio corpo, alla propria espressione della sessualità, come si può riconoscere la violenza?”, spiega bene Valeria Alpi, caporedattrice di “HP Accaparlante”, la rivista del Centro Documentazione Handicap di Bologna, che in una interessante monografia da poco in distribuzione, “La vie en rose. Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza”, raccoglie gli atti del primo Workshop Nazionale su questo tema, svoltosi lo scorso anno a Milano, al quale fra pochi giorni (sabato e domenica a Perugia, a seguire i riferimenti) seguirà il secondo appuntamento.
Ha una dedica speciale: Franco Bomprezzi, punto di riferimento nella comunicazione sulla disabilità e fra i fondatori di questo blog, del quale fra qualche giorno (il 18 dicembre) ricorrerà un anno dalla morte. Martina Gerosa ricorda alcune parole di un suo scritto (“Dedichiamo il Ferragosto alle donne”, dal blog che curava su Vita) nell’introduzione: “Non mi è mai passato per la testa di usare violenza fisica nei confronti di una donna, e non perché vivo in sedia a rotelle. Potrei riuscirci anche da qui, su questo non ho dubbi. È proprio perché l’idea di possesso, di proprietà sulla donna, non mi appartiene, non fa parte del mio bagaglio di viaggio nell’esistenza. So di non possedere del tutto neanche me stesso, dal momento che il corpo non sempre risponde ai comandi del cervello o del cuore. Figurarsi se posso immaginare una sorta di dominio su un essere diverso da me”.
L’idea di possesso citata da Franco è quasi scontata su una donna con disabilità. Non è scontato che si possa considerare il fatto che una donna con disabilità possa essere vittima di violenza. Ne riflette Simona Lancioni, componente del Coordinamento del Gruppo donne della Uildm, che ha una ottima sezione sulla violenza: “Fanno da filtro alcuni pregiudizi: che la violenza possa riguardare solo donne rispondenti a certi canoni estetici (per esempio: la donna non disabile è fisicamente attraente, escludendo anche, in modo del tutto arbitrario, che anche una donna con disabilità possa risultare attraente), e che essa sia una forma di espressione della sessualità”. E’ una forma di sopraffazione, ancor più se esercitata nei confronti di chi vive in condizione di disabilità. E ci sono anche altri aspetti da tenere presenti. Sempre Lancioni: “Le donne con disabilità sono esposte a due tipi di violenze: uno legato al genere, l’altro alla disabilità. La violenza legata al genere si sviluppa con gli stessi meccanismi riscontrati nei casi di violenza verso qualsiasi donna, con in più l’aggravante che, per i casi in cui la donna abbia dei limiti di autonomia e il comportamento oppressivo sia posto in essere da chi le presta assistenza, il percorso di fuoriuscita dalla violenza risulta notevolmente più complesso. La violenza legata alla disabilità assume connotazioni molto specifiche”. Per esempio fra la donna con disabilità e chi presta assistenza. In questo caso si va naturalmente oltre la violenza di genere. Ancora Lancioni: “Si pensi, per esempio, alla minaccia espressa dal caregiver di non prestare più assistenza alla persona con disabilità se questa non soggiace al suo volere, oppure alla gestione dei beni della persona disabile come se fossero proprietà del caregiver, o, ancora, al ricorso alla sedazione della persona disabile, non per motivi di salute, ma per alleviare il lavoro di cura. Sempre in relazione alla violenza legata alla disabilità va segnalata la particolare fragilità delle persone disabili (in maggioranza donne) ricoverate in strutture residenziali”.
Le storie di violenza subite da donne con disabilità intellettiva diventano ancora più invisibili: non raccontate, non notate, non prese in considerazione. Sono fra quelle più a rischio. Stigma nello stigma. Anche per loro, così come per chi vive altre condizioni di disabilità, vi è poi il problema dell’accessibilità ai Centri antiviolenza, alle case rifugio, ai luoghi dove presentare denuncia e si potrebbe continuare. Non si tratta solo di barriere architettoniche: semplificazione nei documenti, audiodescrizioni e sottotitolazioni, testi accessibili. La legge italiana dà comunque strumenti per reagire e sono previste aggravanti specifiche per le persone con disabilità.
Torniamo alle storie che hanno aperto questo post. Chantal, Solange, Anna sono tre donne delle otto che hanno scelto di uscire dal silenzio e raccontare la loro storia in “Violence du silence”, documentario francese di 20 minuti. Sarà presentato anche in Italia, proprio durante il 2° Workshop Nazionale, “Violenza di genere e donne con disabilità: non ‘porgere l’altra guancia’”, organizzato dalla Rete delle donne AntiViolenza, che si svolgerà a Perugia sabato e domenica. Grazie a Blindsight Project e alla sua presidente, Laura Raffaeli (cieca, da anni si batte per una cultura dell’accessibilità), che ha incaricato Culturabile di renderlo accessibile, sarà tradotto, sottotitolato e audiodescritto e, in seguito, sarà possibile scaricare sottotitoli o audiodescrizione da Moviereading. Esperienze terribili, comuni a molte. Da far conoscere. Per uscire dalla invisibilità.
Fonte: Corriere.it
27/11/2015