Sono sempre di più i migranti che soffrono di problemi psicologici. Si tratta di un problema sottovalutato: i servizi dedicati sono pochi e spesso sono rivolti solo ad alcune categorie. Msf: "Manca una professionalizzazione nei centri di accoglienza". Inmp: "I processi di marginalizzazione aumentano il rischio di sviluppare stati di sofferenza psicologica" .
ROMA. Di salute e migranti si parla solo quando ci sono in gioco allarmi legati alle malattie infettive, come nel caso della scabbia, o ancor prima dell’emergenza Ebola. Eppure la maggior parte dei migranti che arrivano nel nostro paese sono sani, almeno dal punto di vista fisico. Sul piano psicologico, invece, la situazione è diversa. Sono in aumento infatti, coloro che presentano problemi di natura psichica. Ferite spesso invisibili, traumi che compaiono piano piano e che riportano alla mente le violenze subite, il dramma di un viaggio rischioso, la morte di amici e familiari. Secondo gli operatori del settore almeno un mirante su tre presenta un disturbo di questo tipo, stima che aumenta nel caso delle persone appena sbarcate. Eppure la salute mentale dei migranti è un tema ampiamente sottovalutato: i servizi dedicati sono pochi e spesso sono rivolti solo ad alcune categorie protette (donne vittime di tratta, rifugiati, minori).
– I dati. L’Inmp (Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti ed il contrasto delle malattie della povertà.) ha realizzato un primo studio sul tema, limitandosi però agli stranieri residenti: in base ai dati Istat provenienti dall’indagine multiscopo sulla salute (anno 2013) ha rilevato una prevalenza di cattiva salute mentale percepita nella popolazione immigrata residente pari al 32 per cento del totale (uno su tre). Restano fuori da questa stima gli irregolari, i transitanti e le persone appena salvate in mare. Ma un’indagine sul campo realizzata da Medici senza frontiere(Msf) in Sicilia dà risultati simili. Nel 2014 l’organizzazione ha attivato un presidio medico in uno dei principali luoghi di sbarco, il porto di Augusta. Qui sono state visitate 2593 persone in sei mesi: nel 40 per cento dei casi sono stati riscontrati disturbi di natura psicologica e cognitiva.
Disturbo da stress post traumatico, depressione e ansia tra le principali patologie. Nello specifico, nei pazienti degli ambulatori di medicina di base specifici per migranti è stata riscontrata la prevalenza di alcune sindromi psicopatologiche: disturbo da stress post-traumatico (10,2 per cento); ansia (39,6 per cento), depressione (46,1 per cento) e sindromi da somatizzazione (25,6 per cento). Nei cosiddetti “migranti economici” ( persone che non hanno fatto richiesta di protezione internazionale), le diagnosi più frequenti sono di “disturbi dell’adattamento e reazioni a stress gravi” (40,8 per cento), seguite da disturbi dell’umore (12 per cento). “Riguardo alle psicosi, diversi studi internazionali riportano un aumento di incidenza tra i migranti rispetto ai nativi – spiega Maria Concetta Mirisola, direttore dell’Inmp -. In generale la prevalenza dei disturbi mentali è maggiore nelle donne”. L’Istituto offre un servizio quotidiano di assistenza a Roma: “nel caso dell’Inmp la situazione è diversa perché, essendo un istituto dedicato alla promozione della salute nelle condizioni di migrazione e povertà, nel campione c’è una preponderanza di persone in condizioni di maggiore fragilità – aggiunge – molti invii provengono dai centri di accoglienza per richiedenti protezione, si tratta cioè di persona arrivate da poco e che hanno storie di traumi multipli. Di conseguenza, i nostri dati riflettono questa particolarità: nel 2015 il disturbo da stress post-traumatico è stato di gran lunga la condizione più frequente (41,1 per cento), seguita dalla depressione (22,6 per cento), dalle sindromi da somatizzazione (5,65 per cento) e dal disturbo d’ansia generalizzato (5,46 per cento). Molto meno comuni sono state le psicosi (3,9 per cento)”. Secondo Stefano Di Carlo, capo missione di Msf Italia spesso si tratta di traumi legati alle “terribili condizioni dei viaggi in mare, dove non è raro veder morire alcune persone. Ma chi arriva racconta anche storie di violenze nei centri di detenzione in Libia, dove le persone vengono spesso picchiate – spiega -. Per esempio ad Augusta abbiamo trattato il caso di un ragazzo che aveva la schiena completamente segnata dai colpi inflitti con un tubo di ferro: ferite gravi e non solo fisiche, perché si tratta di episodi di vita difficili da dimenticare”. Inoltre ci sono coloro che hanno vissuto la guerra e per questo sono stati costretti a scappare, cercando un futuro migliore in Europa: “una porzione di queste persone partono già contesti di conflitto, hanno quindi all’origine dei traumi, a cui si aggiungono quelli del viaggio e all’arrivo”.
Un problema ancora troppo sottovalutato. Nonostante l’incidenza in aumento, il tema però è poco analizzato e i servizi che se ne occupano (e che in molti casi funzionano bene) sono ancora troppo pochi. “Il problema è sottovalutato perché l’attenzione è soprattutto su aspetti di salute che alimentano paure irrazionali nella popolazione, come le malattie infettive- aggiunge Mirisola-. Invece da sempre gli operatori della salute parlano dell’effetto migrante sano. Il migrante, cioè, arriva per lo più sano in Italia, ma poi la sua salute viene messa a rischio per le difficili condizioni ambientali in cui si trova a vivere. Un discorso simile vale per la salute mentale, perché in generale i processi di marginalizzazione sociale a cui i migranti possono andare incontro aumentano significativamente il rischio di sviluppare stati di sofferenza psicologica. In più l’aumento, tra i migranti, di profughi che scappano da situazioni di violenza ci mette di fronte al problema di persone che, a causa dei gravi traumi subiti, sono più vulnerabili e a rischio di sviluppare quadri di sofferenza post-traumatica. Qui intervenire precocemente, riconoscendo il problema e curandolo, è fondamentale, come fondamentale è lavorare per prevenire la ritraumatizzazione secondaria legata alle difficoltà di vita nel Paese ospitante”.
La trappola dei Cie e la scarsa professionalizzazione nei centri di accoglienza. Lo sviluppo di patologie psicologico è legato anche alle condizioni dei centri in cui i migranti vengono trattenuti. “La letteratura internazionale indica chiaramente che la prevalenza di disturbo da stress post traumatico aumenta moltissimo (fino al 60 per cento) in persone private della libertà personale (il corrispettivo dei nostri Centri di Identificazione ed Espulsione) – spiega Mirisola – e che nel tempo le persone che hanno subito questo trattamento avranno più sofferenza psicopatologica e saranno meno integrati di quelli che sono stati accolti con buone pratiche”. Oltre ai Cie tutto il sistema dell’accoglienza gioca un ruolo importantissimo. “L’accoglienza non adeguata può intralciare il percorso terapeutico di recupero della persone – aggiunge Di Stefano – Inoltre, le condizioni dei centri sono importanti anche nel percorso di guarigione”. Proprio per questo, secondo il referente di Msf,andrebbero implementati dei servizi specifici: “è quello che faremo in Italia con la nostra organizzazione. Stiamo pensando di attivare dei protocolli di intesa con le aziende sanitarie dei territori -afferma – A Ragusa, per esempio, dal 2014 al 2015 abbiamo offerto un supporto psicologico all’interno dei centri di accoglienza straordinaria, organizzando un team di psicologi che giravano nelle varie strutture. Il bisogno di una professionalizzazione all’interno dei centri di accoglienza è evidente. E’ vero che il problema dell’accoglienza è esploso negli ultimi anni, per cui si pensa soprattutto a reperire dei posti, ma oggi ci troviamo di fronte a un sistema che ha bisogno di adeguarsi. Serve maggiore consapevolezza ma anche una volontà politica di affrontare questo tema ancora troppo sottovalutato”.
Pochi servizi (che lavorano bene) ma situazione gravemente carente nel paese. Il trattamento della salute mentale nei migranti richiede, infatti, un approccio multidisciplinare e un lavoro in rete, che comprende anche la mediazione culturale. Come spiega lo psicoterapeuta dell’Istituto Hfc Nicola Boccola, “molti migranti hanno difficoltà a gestire il proprio mondo interiore, talvolta ignorando finanche cosa sia un’emozione. Spiegare cosa sia uno psicologo occidentale può essere difficile, per quella parte di loro abituata a sciamani che maneggiano le terapie radicate nella storia dell’etnopsichiatria – sottolinea -: il ricorso ai mediatori culturali per comunicare è necessario quando non c’è una lingua in comune. Con il rischio di trovarsi in situazioni da Lost in Translation: non di rado l’intervento secco e preciso dello psicologo avvia lunghe conversazioni gesticolate tra migrante e il mediatore suo connazionale”. E’ necessaria, inoltre, una formazione specifica per utenze particolari. “A Roma ci sono diversi centri che danno risposte adeguate, soprattutto per le vittime di violenza intenzionale – aggiunge il direttore dell’Inmp -. Invece ci sono difficoltà maggiori a fornire adeguato supporto psicologico ai migranti che non rientrano in progetti specifici (come le vittime di violenza o tratta), ma più semplicemente hanno bisogno di un supporto psicologico per quadri ansioso-depressivi. Ciò è dovuto in parte alla scarsità di personale, in parte alle difficoltà organizzative nel servirsi di mediatori culturali. In altre zone del Paese la situazione è ancora peggiore, spesso gravemente carente. Occorre una diffusione capillare delle competenze e delle buone pratiche su tutto il territorio nazionale”. Un passo avanti potrebbe essere fatto con l’ applicazione del decreto legislativo 21 febbraio 2014, n.18: il ministero della Salute sta elaborando le “Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale”. Questo darà alle regioni la possibilità di organizzare in modo coerente e su tutto il territorio nazionale dei servizi che possano dare risposte adeguate per le fasce di utenza più vulnerabili. “Avere in questi servizi persone formate con una sensibilità culturale dovrebbe facilitare il trasferimento di competenze agli altri servizi per la salute mentale -conclude Mirisola – migliorando anche assistenza e presa in carico dei migranti con altre sindromi psichiatriche”.
Fonte: Redattore Sociale
31/03/2016