La sclerosi multipla (SM) ha un impatto enorme sulla vita dei malati. Questi pazienti non solo devono affrontare i sintomi, tutti molto spiacevoli, della malattia ma sono anche soggetti a imprevedibili ricadute dopo periodi più o meno lunghi (ma di durata irregolare) di remissione, una condizione che rende le persone molto ansiose e stressate.
Come osservato in un nuovo studio della SISSA di Trieste in collaborazione con la Medical University del Sud Carolina, USA (e altri istituti internazionali) tutto ciò ha conseguenze anche sulla ‘cognizione morale’ dei pazienti, che diventano particolarmente intransigenti nei giudizi morali in terza persona. Questa ‘inflessibilità morale’ sarebbe conseguenza di stili cognitivi adottati per superare i disagi della malattia.
Conoscerne le cause, spiegano gli autori dello studio appena pubblicato su Social Neuroscience, ha conseguenze importanti anche sul benessere sociale di pazienti.
La sclerosi multipla in Italia colpisce quasi 70mila individui (nel mondo sono circa 2 e mezzo i pazienti SM). È una malattia autoimmune estremamente invalidante: pur non portando alla morte, mina pesantemente la qualità della vita dei pazienti con sintomi motori, cognitivi, sensoriali… Nella sua forma più tipica la malattia è caratterizzata da episodi acuti e remissioni irregolari, che possono creare nel malato una situazione di ansia perpetua. Questo, secondo gli scienziati, provocherebbe conseguenze sul piano emotivo/cognitivo, che finirebbero, come emerge nello studio recente, per influire sulla cognizione morale dei pazienti.
Indrajeet Patil, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi avanzati (SISSA) di Trieste e primo autore della ricerca, e colleghi hanno sottoposto dei ‘dilemmi morali’ in terza persona a un gruppo di pazienti. Il dilemma morale è un test classico per misurare la cognizione morale, ma di solito i problemi vengono posti in prima persona.
In questo caso i soggetti si comportavano come dei membri di una giuria in un processo, e giudicavano il comportamento di altri. Le condizioni critiche, in questa ricerca specifica, erano l’omicidio colposo (accidentale) e il tentato omicidio. I soggetti valutavano l’appropriatezza di comportamenti morali di altre persone e le pene stabilite. I comportamenti variavano in due dimensioni chiave: l’intenzione di far del male e le conseguenze negative. Gli agenti che operavano in questi scenari cioè potevano o meno avere l’intenzione di far del male, e di conseguenza potevano o meno produrre un danno a un altro individuo.
Queste condizioni sono importanti perché sappiamo che nei giudizi di questo genere entrano in gioco due criteri principali – spiega Patil – Si tiene infatti conto sia delle intenzioni sia della gravità delle conseguenze dell’azione, per cui siamo tendenzialmente più proni a perdonare un omicidio colposo, dove le intenzioni innocenti ma le conseguenze gravi, e a punire un tentato omicidio, dove l’intenzione è cattiva, ma le conseguenze non sono gravi.
È noto che alcune condizioni patologiche modificano questo tipo di giudizi: se ci sono alterazioni nella teoria della mente (la capacità di attribuire stati mentali agli altri), come succede negli autistici per esempio, si fa fatica a valutare le intenzioni, per cui l’omicidio colposo viene giudicato severamente, per via delle conseguenze gravi. Gli psicopatici invece tendono a perdonare più facilmente l’omicidio colposo non tanto perché non abbiano una valutazione corretta delle intenzioni, ma piuttosto per via della ridotta empatia verso le vittime.
Risultati sorprendenti
Nei pazienti SM, Patil e colleghi si aspettavano una tendenza maggiore al perdono, perché è noto che hanno difficoltà con la teoria della mente (come è stato osservato e descritto in alcuni pazienti), ma anche una risposta empatica ridotta.
Invece ci hanno sorpreso: le loro risposte erano più severe del normale in ogni condizione. Inoltre si dimostravano incredibilmente sicuri della validità del proprio giudizio, in maniera significativamente maggiore dei soggetti sani, dichiarando che chiunque avrebbe risposto come loro.
Ulteriori verifiche hanno permesso agli autori di avanzare un’ipotesi su questo atteggiamento inaspettato.
Pensiamo che queste risposte così severe siano da collegare al tipo di strategia emotivo/cognitiva generale messa in atto dai pazienti SM per far fronte alla loro condizione patologica – spiega Ezequiel Gleichgerrcht, neurologo e ricercatore della Medical University del Sud Carolina – La situazione di stress continuo che affrontano quotidianamente può suscitare in loro emozioni negative persistenti. Sul lungo periodo questo stato può provocare l’emergere di una strategia cognitiva che li aiuta a minimizzare il danno. I neuroscienziati hanno chiamato questo fenomeno external oriented thinking, ossia la dalla tendenza ad orientare i pensieri sugli eventi esterni piuttosto che all’introspezione.
È una strategia nota, che ha come conseguenza l’incapacità di riflette ed identificare correttamente le proprie emozioni. Nelle situazioni di giudizio morale, come quelle a cui abbiamo sottoposto i pazienti, porta all’incapacità di identificare le cause reali del proprio stato emotivo negativo, attribuendolo a cause esterne, e non alla propria condizione patologica.
In parole povere, negli esperimenti, i pazienti SM tendevano ad attribuire le proprie emozioni negative a quanto letto nel dilemma, che fossero le conseguenze dell’incidente nell’omicidio colposo o le cattive intenzioni nel tentato omicidio poco importava.
Il paziente credeva che fossero queste cose a provocare l’emozione negativa che provavano e per questo giudicavano molto severamente i responsabili dell’omicidio nel dilemma morale. Questo spiega anche perché registravamo giudizi negativi anche nelle condizioni neutre, dove non c’erano né l’intenzione cattiva né le conseguenze gravi – racconta Patil – Sapere che i pazienti SM tendono ad adottare questa strategia cognitiva, unita al loro perenne stress emotivo, è importante – conclude lo scienziato.
Da un lato infatti aiuta gli operatori sanitari che accudiscono questi pazienti a leggere in maniera oggettiva il loro comportamento e migliorare il rapporto interpersonale, fondamentale in questo tipo di cure.
D’altro lato conoscere questo lato ‘scuro’ può aiutare anche a mettere a punto terapie cognitivo/comportamentali che aiutino i pazienti a migliorare la loro risposta emotiva.
Fonte: Stateofmind.it
04/05/2016