Esce da Mondadori una raccolta di interventi sul pensiero del padre della legge 180.
Il malato mentale è una costruzione storica, l’incasellamento di un individuo dentro una categoria medica, il risultato di una pratica di de-soggettivizzazione. D’accordo con Michel Foucault: la restituzione della soggettività non riguarda solo i cosiddetti matti, ma riguarda tutti, ogni soggetto. Parlava di bisogni inascoltati, repressi, senza alcuna possibilità di auto-rappresentazione. Oggi usiamo il termine “cittadinanza”.
Esce giovedì per le edizioni Bruno Mondadori il libro “Franco Basaglia: un laboratorio italiano” (pagg. 128, euro 11), a cura di Federico Leoni, che raccoglie saggi di Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Gabriella Farina, Rino Genovese, Federico Leoni, Giovanni Mierolo, Stefano Mistura, Massimo Recalcati e Pier Aldo Rovatti. A oltre 30 anni dalla scomparsa di Basaglia, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia e ispiratore della cosiddetta Legge 180, che portò alla rivoluzionaria “apertura” dei manicomi in Italia, l’intento del libro è quello di ripensare Basaglia e di riaprire il suo “laboratorio”. Sopra il titolo un disegno sulla “follia” di Jim Dandy (Archivio Corbis). Dal libro “Franco Basaglia. Un laboratorio italiano” (Bruno Mondadori), a cura di Federico Leoni, pubblichiamo la “lezione” di Pier Aldo Rovatti “Soggetto e follia”, tenuta a Trieste il 6 novembre 2008 in piazza dell’Unità d’Italia, nel trentennale della legge 180. di PIER ALDO ROVATTI Che cos’è un soggetto? La domanda che Franco Basaglia fa continuamente risuonare durante tutta la sua esperienza, in tutto ciò che ha fatto detto e scritto, è precisamente questa. La prima parola che dovremmo leggere nel piccolo libro di Trieste (dobbiamo pure aggiungere qualcosa – dice Basaglia nel 1979 – oltre all’invito a venire a vedere di persona cosa si è fatto e si sta facendo qui) è dunque la parola “soggetto”. O meglio, una frase: «restituire la soggettività», che vuol dire diritti, abitazioni, lavoro. Normalità? Forse, ma con tanti distinguo. Per Basaglia là dove finisce la patologia del manicomio, comincia la patologia della normalità. Dove finisce un’esclusione dura ne iniziano tante altre, magari più morbide, certo non meno de-soggettivanti. Perciò è così azzeccata la metafora della nave che affonda, che Basaglia adopera in un colloquio sempre dell’ultima fase (quella che si impernia sulla promulgazione della legge 180, nel 1978), perchè una volta affondata la nave del manicomio bisognerà pure rendersi conto che all’orizzonte si stagliano le sagome minacciose di tanti altri navigli, o forme di reclusione, o dispositivi che tendono ad avvolgere la società in nuove camicie di forza. Insomma, il viaggio non è terminato e la legge 180 ne è solo una tappa. Anzi, il viaggio è appena agli inizi perchè restituire la soggettività a questo frammento sepolto della società è come togliere un tappo. Per molti aspetti, i malati mentali internati nei manicomi sono tutt’altro che un margine insignificante. Se diamo loro visibilità, come ha fatto Basaglia, viene in piena luce il gesto di imprigionamento – il suo significato e la sua funzione – che la società ogni volta compie (tutte le società?) costruendo un fuoriscena, un ghetto, una riserva, un campo separato di cui non si deve sapere nulla ma che funziona da regolatore, da scarico, da ammortizzatore delle sue contraddizioni. Se riusciamo a inceppare quel gesto e a metterne a nudo il carattere violento e falsamente necessario, scoppia il problema di cosa farsene dell’altro e se una società debba davvero allontanarlo da sé con tecniche più o meno raffinate di segregazione. O se, invece, debba prendersene carico. E’ chiaro, allora, che la restituzione della soggettività non riguarda solo i cosiddetti matti che stavano (e stanno ancora) chiusi nelle istituzioni, ma riguarda tutti, proprio tutti, ogni soggetto, anche il più normale, sempre che questa identità (l’identità di essere un soggetto) continui a interessarci. Eppure, la domanda con cui ho cominciato nasconde un imbroglio filosofico ben noto. Il soggetto non è una cosa. Se la prendiamo alla lettera e cerchiamo di definire cosa sia un soggetto abbiamo già allontanato da noi il problema più importante, in qualche modo abbiamo già imprigionato questo problema. Occorre cambiare stile di pensiero (qui Basaglia e la fenomenologia concreta possono davvero incontrarsi) e parlare di condizioni, pratiche, politiche in questo senso preciso, grazie alle quali ciascuno possa vivere soggettivamente. Libertà è diventata una parola spesso stantìa, ma non esisterei ad adoperarla ancora: libertà significa aver tempo per, avere spazi per, avere mezzi materiali per. Basaglia parlava di bisogni, inascoltati, repressi, senza alcuna possibilità di auto-rappresentazione. Oggi usiamo un termine più soft, “cittadinanza”, ma intendiamo qualcosa di analogo. Diciamo, senza evidenziarlo troppo, che il soggetto è un soggetto politico. Infatti ce parliamo di soggetto, ne va della polis, e dunque della nostra supposta normalità. Ne va anche del fatto che ciascuno di noi ha in sé un’alterità e deve trovare il modo per viverla ed esprimerla senza costruire muri, barriere tra l’interno e l’esterno. Se riusciamo ad abbattere alcuni muri, come ha fatto Basaglia abbattendo il muro del manicomio, dobbiamo guardare bene in cosa consiste la normalità per la quale dure e lunge battaglie si sono combattute. Non credo che, lucidamente, qualcuno intenda questa normalità come una continua e necessaria edificazione di steccati e di rassicuranti esclusioni destinate sempre a dividere le persone e a bloccarle nelle loro solitudini. E qui vorrei chiamare in causa il secondo tema: la “follia”. Restituire la soggettività equivale forsa a una rimozione della follia? La risposta è no. E Basaglia, soprattutto il Basaglia degli ultimissimi anni, è molto netto su questo punto. In una conferenza tenuta in Brasile nel 1979 fa due affermazioni che rappresentano una chiave imortante per entrare nel suo stile di pensiero. Afferma (dopo tanta immersione!) di non sapere cosa sia la follia. E subito dopo si interroga su quali caratteristiche siano necessarie a una società «per dirsi civile». Oggi, sappiamo benissimo che è il malato mentale. Appunto: il malato di mente è un’entità concreta e se poi specifichiamo che quel malato mentale è uno schizofrenico questa entità diventa ancora più concreta. In futuro, grazie al progresso dei saperi della mente, tale concretezza sarà ancora più palpabile e dettagliata. Per contraccolpo la follia, che già sembra indicare un che di astratto, diventerà sempre più astratta, una parola generica, quasi senza senso.
E’ davvero così? Per Basaglia i termini si capovolgono. Per lui, il malato mentale, di cui non disconosce mai l’esistenza e il cono di sofferenza che lo accompagna, è una costruzione storica, l’incasellamento di un individuo dentro una categoria psichiatrica e medica, il risultato di una pratica di de-soggettivazione che comporta la sorveglianza, il controllo, l’isolamento e lo stigma. D’accordo con Michel Foucault, Basaglia considera che la follia e la malattia mentale appartengono con ruoli ed esiti diversi alla stessa storia: una vicenda che attraversa la modernità e in cui la follia viene evacuata e sostituita dalla malattia mentale, servendosi della ragione come legittimazione, anzi come verità di questo processo. Se lottiamo per uscire dal tunnel della malattia mentale e del suo stigma, se ipotizziamo di restituire a questo “malato” la sua soggettività, allora dovremmo restituirgli anche la sua follia. Con un linguaggio che oggi tendiamo ad adoperare sempre di meno, Basaglia dice che la follia è la nostra dimensione irrazionale. Il soggetto a cui miriamo non deve essere defraudato di questa dimensione che forse ha a che vare con la libertà stessa. Ecco la sua testuale affermazione: «La società, per dirsi civile, dovrebbe accertare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla». Possiamo accettare o rifiutare questa affermazione (che, a mio parere, taglia corto con tutte le polemiche, oggi ancora una volta risollevate, sui guai prodotti dall’antipsichiatria, e se e quanto basaglia stesso ne sia stato corresponsabile). E’ comunque il pensiero di Basaglia. Se lo rifiutiamo abbiamo chiuso i conti con la follia. Se lo facciamo nostro, e lo prendiamo come problema sul quale meditare seriamente, allora vacillano molti dei miti della normalità di cui in genere ci accontentiamo. E riapriamo così la questione del soggetto, nella sua complessità, pensando a un soggetto che può dirsi tale solo quando non è assoggettato né stigmatizzato come un soggetto comunque assoggettabile.
Fonte: Il Piccolo di Trieste
04/10/2011