Grazie al prezioso contributo di Chiara Lalli, nota filosofa e giornalista, si arricchisce ulteriormente il dibattito da noi lanciato qualche settimana fa, riferito alla parte concernente l’aborto, all’interno del documento intitolato “L’approccio bioetico alle persone con disabilità”, recentemente prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino
Nel corso del suo recente viaggio in Brasile, papa Francesco «ha incontrato una coppia che gli presentava la propria piccola figlia nata anencefala (cioè senza cervello) e ancora in vita (mentre di solito questi bimbi muoiono quasi subito). I genitori non hanno voluto abortire pur essendo permesso in questi casi l’aborto dalle leggi statali. Hanno voluto invece accogliere la vita» (28 luglio 2013, Agenzia AGI).
La decisione di questi genitori è una scelta su cui si potrebbe discutere moralmente. Ciò che invece va rifiutato è il tentativo di renderla una dimostrazione che sia l’unica scelta possibile e che l’interruzione di gravidanza sia moralmente ripugnante. Dietro a storie del genere, infatti, si nasconde spesso una fallacia: si vuole condannare l’aborto indicando il nato e insinuando che abortire significherebbe aver compiuto un omicidio. «Vedete? – si dice – se avessi abortito mio figlio non sarebbe mai nato, se avessi abortito l’avrei assassinato commettendo il peggiore crimine immaginabile». Letteralmente è vero che se avessi abortito mio figlio non sarebbe nato, ma non possiamo andare oltre: non possiamo dire che lo avremmo «assassinato».
Quando la madre di Justin Bieber [giovane noto cantante, musicista e attore canadese, N.d.R.] disse: «Avevo considerato l’aborto, ero giovane e confusa, avrei abortito Justin!», compì più o meno lo stesso errore. Con Justin lì davanti, si immagina che l’abortito sarebbe stato proprio Justin – e non un embrione o un feto che sarebbe diventato Justin (ma che al momento dell’eventuale interruzione di gravidanza non era Justin). Quando l’interruzione volontaria di gravidanza è decisa in seguito a una diagnosi prenatale che rivela una disabilità, si aggiunge la presunta “discriminazione verso le persone disabili”.
Ai tempi della furiosa discussione sulla Legge 40/04 riguardante le tecniche riproduttive, il dibattito spesso prendeva le mosse dal concetto di “persona potenziale” e dalla conseguente intoccabilità della vita umana in qualsiasi fase di sviluppo. Dovendo riformulare quanto detto, usando questa terminologia, diremmo: è ben diverso abortire una persona che è solo potenziale e non attuale dall’eliminare una persona attuale (omicidio). Fallacie di questo tipo sono particolarmente vive quando la decisione di interrompere una gravidanza è presa dopo una diagnosi prenatale, cioè dopo aver saputo che l’embrione o il feto è affetto da una qualche patologia. L’implicazione – scorretta – vuole accusare chi sceglie di interrompere una gravidanza in queste circostanze, e chi difende la possibilità di compiere questa scelta, di discriminare le persone disabili. Eppure, interrompere una gravidanza riguarda le persone “potenziali” e non implica necessariamente un giudizio su quelle “attuali”.
La continuità dello sviluppo biologico rende difficile tracciare linee di confine. Ma questa difficoltà non ci autorizza a negare che vi siano differenze tra i diversi stadi di sviluppo: tra infanzia e adolescenza, o tra età adulta e vecchiaia. Tra embrione e bambino. Pretendere di sostenere che siccome oggi mio figlio ha un certo statuto (quello di persona attuale), allora lo aveva anche allo stadio di embrione, sarebbe come pretendere che siccome oggi sono vecchio dovevo esserlo anche a vent’anni. Tracciare soglie è un atto arbitrario, è una convenzione, ma tale arbitrarietà non fa evaporare le differenze e non dimostra l’equivalenza tra aborto e omicidio.
Durante le Olimpiadi di Londra del 2012, il cappellano James Parker denunciò l’ipocrisia di celebrare allo stesso tempo gli atleti disabili e i test prenatali. Per Parker questa sarebbe un’ipocrisia moderna, ma sembra piuttosto essere un malinteso: se scelgo infatti di interrompere una gravidanza di un feto affetto da una patologia x, non significa che “discrimino” tutti quelli (già esistenti per altro) affetti da quella patologia e da altre. Ci sono tanti altri esempi analoghi. Si legga ad esempio quanto scrive Claudio Arrigoni, nel testo pubblicato il 4 maggio 2012, dal titolo Che fine avrei fatto?, nel blog InVisibili di «Corriere della Sera.it»: «Le parole sono arrivate quasi inaspettate, alla conclusione di un servizio tv alla scorsa Domenica In sulla sua storia: “Meno male che sono nata nel ’72, altrimenti chissà che fine avrei fatto per l’amniocentesi…”. Cristina è una suora laica dell’Ordo Virginium, passa periodi in missione in Africa. È nata con la sindrome di Down. Si può ignorare questa frase. Si può banalizzarla. Ma anche si può, e si dovrebbe, riflettere».
Il fatto è che è proprio la riflessione a mancare. L’emozione soffoca la ragione e tutti a commentare con in testa l’immagine di un’esistenza cancellata, esistenza che non ci sarebbe stata in caso di un aborto. Per usare le parole di Cristina: non avrebbe fatto alcuna fine, perché non avrebbe avuto alcun inizio. Da queste parti si annida anche il fantasma dell’eugenetica “alla Hitler”, ma basti dire che il dominio in cui ci muoviamo oggi, discutendo di fine vita o di interruzione volontaria della gravidanza, nulla ha a che fare con la prospettiva illiberale dei regimi dittatoriali.
Sull’interruzione di gravidanza e la disabilità si è espresso di recente il Comitato Sammarinese di bioetica, nel documento L’approccio bioetico alle persone con disabilità. Prima di procedere, ricordo che a San Marino l’interruzione di gravidanza è vietata e che la Legge 194/78 [“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, N.d.R.] stabilisce che si possa interrompere una gravidanza dopo i primi 90 giorni nelle seguenti circostanze: «a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Il documento del Comitato Sammarinese prende una posizione chiara: interrompere volontariamente una gravidanza dopo una diagnosi prenatale è discriminatorio, «elimina[ndo] un soggetto che spesso non è benvenuto». Non sembra esserci spazio per la decisione individuale della donna: in caso di omicidio sarebbe chiaro il perché, ma andrebbe ancora dimostrato che l’aborto sia un omicidio e non assunto tra le premesse. Se si continua a leggere, la miopia è evidente. Nel paragrafo Eutanasia, infatti, si afferma: «Da più di un decennio si è diffusa a livello internazionale una posizione che intende limitare il diritto alla vita di persone con disabilità che abbiano importanti diversità funzionali». È frequente presentare l’eutanasia in questo modo, ma si scambia un’aberrazione per il principio di libera scelta. Scegliere di interrompere la propria esistenza non c’entra nulla con lo stilare gerarchie di vite (altrui) degne o indegne. Non si può non essere d’accordo sul principio finale, ma è curioso che l’invito a non subire pressioni vada in un solo senso di marcia: «I genitori non subiscano pressioni, formalmente o informalmente, per sottoporsi a test prenatali o ad interruzioni di gravidanza “terapeutiche”».
Quel documento ha avviato un dibattito interessante, sulle pagine di «Superando.it», in particolare proprio riguardo alla questione dell’aborto in caso di una diagnosi di patologie.
La prima risposta è stata quella di Simona Lancioni (Bioetica e sensi unici): discutere di interruzione di gravidanza dimenticando il punto di vista delle donne è un errore grossolano. Così come cancellare la distinzione tra attualità e potenzialità delle persone.
Lancioni è tornata poi sulla questione della presunta “discriminazione” qualche giorno dopo. In La differenza tra bufalo e locomotiva mette in discussione il fatto che la posizione del documento del Comitato Sammarinese possa prendere le mosse dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, come gli Autori rivendicano: «La posizione del Comitato in tema di aborto è in palese contrasto con quanto sancito dalla stessa Convenzione ONU». La Convenzione, infatti, non si esprime esplicitamente sull’interruzione di gravidanza e attribuisce i diritti alle persone, non agli embrioni e ai feti. Non si può dunque automaticamente applicare a quei soggetti il cui statuto ontologico è quanto meno dubbio.
A Lancioni risponde, qualche giorno più tardi, Giampiero Griffo, componente dell’Esecutivo Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), con l’articolo intitolato I diritti non sono mai contro i diritti. Ecco qual è il passaggio cruciale della sua critica: «È proprio l’eccezione contenuta nel punto b) della legge italiana […] che le associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari, che si occupano di bioetica, ritengono sia una pratica discriminatoria.
Il diritto a scegliere di avere o non avere un figlio non viene messo in discussione, viene altresì denunciato che l’aborto sia ammesso in via eccezionale, e oltre il limite temporale ammesso per tutti gli altri, in presenza di “processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”».
In altre parole: perché dopo i primi novanta giorni posso interrompere la gravidanza solo se il feto è affetto da una patologia? La domanda è sensata (sulla riposta dovremmo tornarci), ma la differenza non dimostra la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità. Perché abortire un feto con una determinata patologia non implica discriminare le altre persone con la stessa patologia, né con altre. La differenza si potrebbe spiegare ricorrendo ad alcune considerazioni che sembrano essere state messe da parte.
Ma come delineare un panorama più ampio di quello incentrato sulla personalità dei feti? Simona Lancioni fa parte del Coordinamento del Gruppo Donne della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che promuove le pari opportunità delle donne disabili e l’integrazione delle persone disabili. Il Gruppo si è espresso proprio su questo argomento [insieme ad altre associazioni e gruppi femminili, N.d.R.]. «Dire che l’aborto sia un omicidio – mi dice Lancioni – consolida lo stigma negativo secondo cui la donna che decide di abortire sarebbe un’omicida. Il documento del Comitato Sammarinese di Bioetica fa finta di rispettare le donne, ma definendo l’aborto tardivo come uno strumento per “elimina[re] un soggetto che spesso non è benvenuto” rivela quale sia il suo giudizio, non proprio neutro come loro vorrebbero far credere. Poi c’è un altro aspetto trascurato: pensare che la scelta di abortire un “feto malato” riguardi solo le considerazioni sul feto. Viene sottovalutato l’impatto che la presenza di una persona con disabilità può avere sulle famiglie. Queste famiglie sono spesso abbandonate in situazioni drammatiche. Solo per citare un dato: a oggi il Fondo per le Non Autosufficienze per il 2014 è pari a zero. Su quali spalle ricadrà l’assenza dello Stato [se, come è già successo nel 2012, esso non verrà finanziato, N.d.R.]? Mi sembra che si faccia un po’ in fretta a dire “vogliono il figlio sano” con quel tono di accusa e senza valutare il contesto».
Parlando di discriminazione e disabilità, poi, non si può non accennare a una discriminazione nei confronti delle donne che vorrebbero avere un figlio. Continua Lancioni: «Spesso sono le donne con disabilità che vogliono diventare madri che vengono scoraggiate, o che ricevono pressioni in senso abortivo. Io considero questa una violenza gravissima e inaccettabile. Tutte le pressioni sono condannabili, così come tutte le violazioni della libertà di scegliere».
Infine, sulla presunta “discriminazione” tra feti che la Legge 194/78 compirebbe, Lancioni commenta: «Secondo me i termini sono diversi perché pensati in funzione della donna, che ha uno statuto diverso da quello dei feti. È inammissibile restringere l’autodeterminazione della donna. Il corpo è il suo e solo lei può scegliere se portare avanti una gravidanza oppure no, non è un “servizio pubblico” rispetto al quale può arrivare qualcun altro a rivendicarne la proprietà».
Fonte: Superando.it
29/08/2013