Assegno per la vita indipendente negato: la storia di Leonardo

Assegno per la vita indipendente negato: la storia di Leonardo

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«Se ti abbraccio non aver paura» è un libro che racconta il viaggio meraviglioso di un padre, Franco Antonello, imprenditore di Castelfranco Veneto, e di suo figlio Andrea, 18 anni, autistico. Una storia vera, che vuole attirare l’attenzione sulla disabilità senza pietismi, ma come fosse un’avventura da inventare giorno per giorno, proprio come la vacanza on the road attraverso l’America.
Il libro è stato tradotto in otto lingue, ultima delle quali il cinese, e presto diventerà un film. Franco Antonello domenica dalle 10 alle 12 nel palazzo della Fondazione Caritro racconterà la sua storia, partendo dal verdetto medico che ha rivoluzionato il suo universo, passando dall’associazione «I bambini delle fate» e finendo nelle foreste del Guatemala ad abbracciare sciamani.
Cosa ha provato quando le hanno comunicato che Andrea era autistico?
«È come se ti arrivassero addosso una bufera e sette tifoni; non sai cosa fare, rimani sconvolto. Ciò che fa più male è la consapevolezza che questa cosa ti accompagnerà per tutta la vita. Il primo pensiero è che tuo figlio sarà segnato per sempre. Ognuno comunque reagisce a modo suo: io ho fatto 300 chilometri in auto sfasciando di pugni il mio Bmw. La reazione iniziale poi si è evoluta fino a quello che faccio adesso: ho capito che, anche di fronte alla distruzione, si può creare una favola. Quando ricevi una notizia simile sei un uomo morto, molti non ce la fanno a risollevarsi: io credo che noi, più degli altri padri, abbiamo il dovere di farci vedere sorridenti dai nostri bambini, di parlargli di Harley Davidson e paesaggi incontaminati invece che di siringhe e farmaci.
Poi arriva un momento in cui devi decidere se vuoi piangere per tutta la vita o se vuoi usare meglio la tua energia. Mi sono detto: "Chi può dare coraggio ad Andrea se non io?". Quando le cose non vanno lisce con i figli, i genitori si pongono una domanda: "è colpa mia?" Io ho un altro figlio, Alberto, e con lui è tutto più facile, ma comunque mi pongo questa domanda, come fanno tutti i genitori. Il fatto è che non dovremmo interrogarci su questo: cerchiamo risposte che non ci sono, quando invece dovremmo solo dedicare più tempo ai nostri figli. Io ho preso tre mesi dal lavoro per andare in America, ma in realtà basterebbe un’ora al giorno. Bisognerebbe fare quello che ci viene d’istinto, cercando di non arrabbiarci e tirando fuori un sorriso».
Nella sua esperienza, la scuola era preparata per seguire suo figlio?
«Non voglio criticare, perché a scuola Andrea ha trovato amicizia e l’aiuto incredibile degli insegnanti di sostegno, ma la maggior parte dei docenti non è preparata. La cosa che più mi ha fatto male è la rigidità burocratica dei vertici dirigenziali. Però veramente non saprei come potrebbe migliorare la situazione, con così tanti ragazzi da seguire e stipendi da fame. Non vedo l’ora che Andrea finisca questo ultimo anno: le famiglie non ricevono aiuto, i ragazzi vengono sedati perché non c’è tempo per seguirli. Mio figlio fa canoa, pittura, ha molti interessi, ma solo perché io ho la possibilità di stargli dietro, sennò sarebbe in un posto da solo con sempre una pastiglietta in corpo».
Perché ha deciso di fondare l’associazione «I bambini delle fate?»
«Ho cambiato atteggiamento: invece di chiedere aiuto alla scuola, alle Asl, al comune, credo che debba essere tutta la comunità a muoversi per aiutare questi ragazzi, anche perché sono sempre di più. Ogni anno, uno su cento nati è affetto da disturbi dello spettro autistico. In Italia ci sono altri 400 mila ragazzi come Andrea. Io conosco le loro storie, so di ragazzi chiusi a chiave in camera, sedati come larve. Per loro non può esserci solo questo futuro. Non possiamo più aspettare soluzioni dall’alto, è ora che ci muoviamo in prima persona e che la gente la smetta di pensare all’ultimo modello di cellulare e dedichi un uno percento di energie agli altri. Andrea poi mi dice: "Voglio che la mia storia serva a chi è meno fortunato di me", così abbiamo pubblicato il libro e, attraverso questa storia, molti hanno capito cosa è veramente l’autismo».
Portando suo figlio in America, lei è andato contro il parere dei medici. Non ha avuto paura?
«Ogni giorno ci inventavamo cosa fare, abbiamo visitato i posti più loschi; dove ci dicevano di non andare, noi impostavamo il navigatore. È stata la vacanza più bella della mia vita e non mi sono mai sentito in pericolo, nemmeno dove avrebbero dovuto tagliarci la gola. Il vero eroe però non sono io, ma chi non ha i soldi per gestire il proprio figlio disabile, che è come un terremoto costante in casa. La vera difficoltà è nella quotidianità».
Lei si chiede mai cosa farà Andrea da grande?
«Me lo chiedo e ho già la risposta: farà il pittore, dipinge molto bene e avrà un suo studio. Dall’altra cercheremo di sfruttare il suo fisico nello sport. Ciò che mi uccide è pensare al destino degli altri ragazzi come Andrea. Il «dopo di noi» è il pensiero più grosso dei genitori con figli disabili. Pensare che vengano chiusi da qualche parte, con minestrina e a letto alle nove, mi fa venire in mente l’inferno. Se fossi autistico, avrei paura, perché non esiste un futuro peggiore di questo».

di Laura Galassi

Fonte: L’Adige.it

03/10/2012