Nuova sentenza della sezione Lavoro, che rigetta il ricorso presentato da una signora alla quale era stato indicato che per l’ottenimento della pensione di invalidità si deve fare riferimento anche al reddito del coniuge e non solo a quello personale. La sentenza vale solo per il caso concreto ma infiamma un dibattito ancora aperto. Cgil: "Si riducono i diritti di cittadinanza". Uil: "E’ un tema che va risolto dalla politica". La Fish: "Il Parlamento metta fine a questo pasticcio"
ROMA – E’ il reddito familiare e non quello individuale quello di cui si deve tener conto nel riconoscere il diritto alla pensione di invalidità. E’ quanto stabilito dalla sezione Lavoro della Cassazione, che ha rigettato il ricorso presentato da una donna contro una sentenza della Corte d’appello di Roma, sentenza che, a sua volta, aveva respinto la sua domanda volta ad ottenere la pensione di inabilità. Non è la prima volta che la cosa accade. In diverse altre occasioni, nel corso degli anni, la sezione Lavoro aveva preso un’identica decisione su singoli casi, aprendo di fatto una questione dai contorni molto delicati.
Tanto che l’Inps, sulla scorta delle stesse sentenze, aveva deciso: per la pensione di inabilità, si sarebbe fatto riferimento proprio al reddito familiare della persona che ne avesse fatto richiesta. La decisione, però, aveva sollevato numerose reazioni da parte delle associazioni. Tanto che, ad inizio 2013, lo stesso Istituto previdenziale era tornato nuovamente sui suoi passi e aveva sancito che anche per la pensione di inabilità, che spetta alla persona con invalidità civile al 100 per cento, si continuerà a far riferimento al reddito personale del soggetto, senza prendere in considerazione anche il reddito del coniuge. Il tutto in attesa di una nota ministeriale che non è stata ancora emanata. E siamo all’oggi, con la nuova sentenza della Cassazione. Una decisione che provoca subito delle reazioni.
SINDACATI – La Uil Pensionati in una nota esprime "sconcerto e contrarietà per la sentenza della Corte di Cassazione". A prendere posizione è il segretario generale della Uil Pensionati, Romano Bellissima, secondo il quale "un tema così delicato qual è quello della invalidità civile, che coinvolge centinaia di migliaia di persone in condizioni di estrema fragilità e bisogno, non è un tema giuridico, ma un tema sociale, che va risolto dalla politica, con il coinvolgimento delle parti sociali". "Come Uilp – conclude – ribadiamo che per il diritto alla prestazione si deve continuare a considerare il reddito individuale, per evitare che moltissimi invalidi civili al 100 per cento perdano la possibilità di ricevere questa prestazione (peraltro di importo assai modesto, inferiore ai 300 euro mensili) aggravando ulteriormente una situazione che è già di grandissima difficoltà. Chiediamo dunque che il Governo si impegni a restituire giustizia, dignità e diritti a nostri concittadini che vivono quotidianamente sofferenze e disagi, aggravati dalla difficile condizione del nostro Paese e dalla riduzione del welfare".
Per la responsabile dell’Ufficio Politiche per la disabilità della Cgil, Nina Daita, si tratta di "una sentenza che, sia detto nel massimo rispetto dell’Alta corte, non condividiamo assolutamente". La dirigente sindacale ricorda come "la sentenza di oggi non fa legge e, in ogni caso, occorre che il Parlamento faccia presto chiarezza perché l’invalidità in quanto tale è un fattore individuale e non certo familiare". Per Daita "pensare di colpire così i più deboli non può appartenere a uno stato che pretenda di essere equo e governato dal semplice buon senso". Il reddito da conteggiare, sottolinea ancora la sindacalista, "deve essere quello individuale perché l’invalidità stessa è individuale. Prendendo come riferimento invece il reddito familiare non si fa altro che colpire la parte più debole e indifesa del Paese, introducendo per paradosso gravi discriminazione tra gli stessi invalidi. Basta pensare che due persone con una stessa invalidità possono o meno percepire l’assegno se siano sposati o meno. Un fatto inconcepibile. L’assegno deve legato all’invalidità e anche ad un reddito ma quest’ultimo di certo non può essere un discrimine". La Cgil in ogni caso, conclude Daita, "si farà garante e lotterà con tutte le sue forze contro questa sentenza che riduce i diritti di cittadinanza".
LA FISH – "Giungono alla Fish forti segnali di preoccupazione dopo il recente pronunciamento della Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, Sentenza n. 7320 del 22 marzo 2013) sulla questione dei limiti reddituali da applicare ai fini della concessione della pensione agli invalidi civili" scrive l’organizzazione in una nota. "La Corte, dopo indicazioni di segno opposto, afferma che il reddito a cui fare riferimento non è solo quello individuale, ma deve essere sommato a quello del coniuge, se presente. Ribadisce, quindi, quanto già affermato nella Sentenza del 2011 (Sezione Lavoro, n. 4677 del 25 febbraio 2011). La sentenza non è legge e non incide immediatamente sulle prestazioni di milioni di invalidi civili, ma potrebbe condizionare – evidenzia la Fish – il confronto in corso fra Inps e Ministero del Lavoro proprio su questo tema". La Federazione ricorda che "a fine 2012 Inps aveva emanato una circolare che già prevedeva il computo del reddito coniugale (e non più individuale) ai fini della concessione della pensione. In seguito alle proteste delle Associazioni e dei Sindacati e al conseguente intervento del Ministero del Lavoro, la circolare era stata ritirata da INPS in attesa, appunto, di un’istruttoria fra il Dicastero e l’Istituto". "Riteniamo – afferma il presidente Pietro Barbieri – che questo ‘pasticcio’ debba essere sanato politicamente dalle Camere, che il Parlamento debba riappropriarsi della propria funzione legislativa, intervenendo sulla delicata materia e pronunciando quella che è l’interpretazione esatta di una normativa farraginosa". Barbieri ricorda che nella precedente legislatura era stata depositata una precisa proposta di legge (Atti della Camera, 4231) che però non è mai giunta alla discussione. "Ci appelliamo a tutti i Parlamentari – dice – affinché quella proposta non solo venga ripresentata, ma che sia anche calendarizzata al più presto, discussa e approvata. Il rischio che, in forza di una decisione assunta nelle aule di tribunale, migliaia di persone rimangano prive di protezione (già minima) è elevatissimo".
Fonte: Superabile.it
27/03/2013