Questo progetto intende utilizzare l’opera e il pensiero di Fabrizio De Andrè in ambito psichiatrico per il raggiungimento di due obiettivi concreti: quello di favorire la diffusione empatica, attraverso il linguaggio della musica, del teatro e delle opere letterarie, dei concetti utili a contrastare i pregiudizi su tutte le forme di disagio psicologico e quello di intervenire nel processo di cura dei pazienti che soffrono di tale disagio.
Quando si tratta di disagio psichico non è sempre facile legittimare la sofferenza, in fondo con un mal di pancia si può stare a casa da lavoro… e con gli attacchi di panico, l’ansia, la depressione? Pacca sulla spalla e “passerà, non è niente, devi essere forte!”
E’ questa la storia della gran parte dei nostri pazienti circondati da parenti e amici che fanno fatica a capire, a volte convinti che basti la Buona Volontà per guarire.
Il Dr. Gabriele Catania, psicoterapeuta presso l ‘Unità Operativa di Psichiatria dell’Ospedale Luigi Sacco dove dirige un Centro di Psicoterapia (N.O.Te.C.), da anni è impegnato nella “lotta allo stigma psichiatrico”.
Fondatore e presidente dell’Associazione Amici della Mente Onlus, ha dato il via a una serie di iniziative culturali che hanno l’obiettivo di veicolare informazioni corrette in merito al disagio psichico. E lo fa anche con la musica, quella di De Andrè.
Lo abbiamo intervistato per comprendere in cosa consiste il suo lavoro.
S.o.M. Con Amici della Mente ONLUS , l’Associazione Locanda Spettacolo e la scuola di musica “Cluster” ha dato il via al progetto Faber in Mente. Ci racconta in cosa consiste?
Da circa quattro anni, all’interno del Dipartimento di salute mentale dell’Ospedale L. Sacco di Milano, in collaborazione con l’Associazione di volontariato “Amici della mente onlus” (www.amicidellamente.org), che opera nello stesso ospedale, è stato attivato un progetto denominato “Faber in Mente”.
Questo progetto, da me ideato e coordinato, intende utilizzare l’opera e il pensiero di Fabrizio De Andrè in ambito psichiatrico per il raggiungimento di due obiettivi concreti: quello di favorire la diffusione empatica, attraverso il linguaggio della musica, del teatro e delle opere letterarie, dei concetti utili a contrastare i pregiudizi su tutte le forme di disagio psicologico e quello di intervenire nel processo di cura dei pazienti che soffrono di tale disagio.
Mi piace ricordare che l’attività di lotta contro lo stigma sui disturbi psichici non è solo un intervento di tipo culturale ma anche e soprattutto di prevenzione secondaria del disagio mentale. È noto infatti come la disinformazione e l’ignoranza su tali disturbi porti molte persone a non curarsi o a curarsi male, con costi consistenti sia a livello individuale che collettivo.
Forte di questi argomenti, qualche anno fa, decisi di parlare del mio progetto alla Fondazione Fabrizio De Andrè. Il risultato fu che ci trovammo a condividere il convincimento che certamente Faber avrebbe apprezzato l’idea che il suo pensiero e la sua opera potesse essere utilizzata per provare a produrre un cambiamento concreto nella società. In quella occasione Dori Ghezzi mi ricordò una riflessione di suo marito:
“Tutte le sere quando finisco il concerto desidererei rivolgermi alla gente e dire loro: tutto quello che avete ascoltato fino adesso è assolutamente falso, così come sono assolutamente veri gli ideali e i sentimenti che mi hanno portato a scrivere queste cose e a cantarle. Ma con gli ideali e con i sentimenti si costruiscono delle realtà sognate. La realtà, quella vera, è quella che ci aspetta fuori dalle porte del teatro, e per modificarla, se vogliamo modificarla, c’è bisogno di gesti concreti e reali”.
Mi disse anche che stavano preparando un’antologia nella quale avrebbero raccolto tutte le esperienze attuate sul territorio nazionale che si proponevano tale scopo, e mi propose di scrivere un capitolo sul mio progetto che fu poi pubblicato nel maggio dell’anno scorso. Il libro, edito da Chiarelettere e curato da Elena Valdini, ha come titolo: “Ai bordi dell’infinito”.
Da allora grazie alla collaborazione e l’incoraggiamento della Fondazione, il progetto Faber in mente ha programmato e realizzato un numero sempre crescente di attività. Oltre alla realizzazione di spettacoli teatrali ( “Le stanze di Faber” realizzato dalla compagnia “Locanda spettacolo”) e musicali ( è in fase di produzione un Compact Disc con la collaborazione di Franz Di Cioccio dove verranno raccolte nove canzoni cantate dall’ ensemble “Faber in cluster”) è stato avviato un programma di riabilitazione psichiatrica (dal titolo: “Tu prova ad avere un mondo nel cuore“) presso una struttura semiresidenziale del nostro Dipartimento di Salute Mentale che utilizza le canzoni di De Andrè come mezzo per favorire lo sviluppo di un rapporto empatico dei pazienti con la loro sofferenza.
In tal modo si intende far superare la vergogna e la colpevolizzazione che purtroppo spesso appesantisce la condizione dei nostri pazienti peggiorando significativamente la qualità della loro vita e frenando i progressi nella cura. Sono stati anche avviati diversi gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto che stanno aiutando pazienti e familiari a sviluppare una competenza assolutamente necessaria a chi vuole stabilire una relazione d’aiuto: la capacità di sospendere il giudizio sugli altri e su se stessi per imparare a comprendere e a comprendersi.
Un’abilità questa che Fabrizio De Andrè ha meravigliosamente contribuito a diffondere. È stato lui infatti a farci capire che si può comprendere le ragioni di chi sbaglia, persino di chi vende la madre per tremila lire a un nano.
S.o.M. Da cosa è nata l’idea di utilizzare le canzoni di De Andrè per raccontare il disagio psichico?
Tutto accadde quando ascoltando la canzone di De Andrè “La ballata dell’amore cieco” (o della vanità) mi venne in mente, in modo del tutto inatteso, il caso di una mia giovane paziente anoressica che avevo in trattamento. Sulle prime rimasi abbastanza sorpreso: che cosa poteva entrarci quella canzone con la storia di un’anoressica? Poi invece mi accorsi che l’aspetto clinico che stavamo affrontando proprio in quel periodo della terapia con la paziente, era contenuto in quella canzone. Infatti in essa si racconta la storia di un uomo innamorato che vive un rapporto complicato con la sua donna. Quest’ultima continua a fargli richieste emotivamente molto pesanti (come strappare il cuore di sua madre per darlo ai cani o addirittura uccidersi per lei) per essere ricambiato. Quasi come se quell’uomo dovesse costringersi a sacrifici estremi per meritarsi l’amore della sua innamorata. Un amore dunque basato su una precisa condizione: quella di non doverla deludere.
Solo allora mi ricordai che anche la mia paziente si trovava in una situazione simile. Mi aveva detto che fin da bambina il rapporto affettivo con i suoi genitori era regolato da una condizione simile, una specie di contratto : “tu non ci deludi e noi apprezzeremo le tue fatiche ricambiandoti con il nostro affetto”.
Lei non aveva una consapevolezza precisa di questo aspetto del suo problema, così decisi di farle ascoltare la canzone. Attraverso l’ascolto di quel brano, che non conosceva, quella giovane donna si identificò con il personaggio di De Andrè e potendosi distanziare dalla sua situazione la riconobbe più precisamente. Quello fu in passo importante per l’evoluzione del trattamento perché su quella consapevolezza, la paziente, riuscì gradualmente a rimodulare i suoi vissuti in senso funzionale. Decisiva fu l’individuazione di un costrutto che le permise di considerare le relazioni affettive da un punto di osservazione diverso da quello alla quale era stata abituata. Lei aveva inteso la relazione come condizionata da uno scambio; attraverso la riflessione suggerita da De Andrè, aveva invece capito che un rapporto affettivo autentico deve essere basato sull’ “amore a prescindere”.
In quella occasione mi ricordai che Eric Fromm nel suo “L’arte d’amare” aveva scritto a proposito dell’amore materno: “la madre ama suo figlio perché è la sua creatura non perché se lo merita”.
Il concetto dell’amore a prescindere è diventato l’elemento centrale di una serie di attività promosse dall’associazione “Amici della mente onlus” e dal nostro dipartimento di salute mentale. Esso infatti si basa sulla capacità di “sospensione del giudizio” ed essendo questa una necessità ineludibile per stabilire una relazione d’aiuto efficace, abbiamo pensato di diffonderla. Sono nati così dei gruppi di auto muto aiuto organizzati sull’approfondimento di questa abilità per imparare ad essere empatici con se stessi e con gli altri, ma anche un progetto di riabilitazione psichiatrica con i pazienti del centro diurno del nostro DSM.
S.o.M. Nel suo ultimo libro “La terapia De Andrè” racconta nove casi clinici parafrasando alcuni dei testi delle canzoni del cantautore genovese. Qual è l’obiettivo clinico di questo lavoro? In che modo pensa che ciò possa agevolare il cambiamento in terapia e cosa intende per Terapia De Andrè?
Questo libro è stato scritto per perseguire gli stessi obiettivi del progetto “Faber in mente”: cercare di far comprendere il disagio psichico attraverso una consapevolezza empatica, l’unica capace di fare in modo che le informazioni si possano legare alla memoria attraverso un processo di partecipazione emotiva e così rimanerci a lungo.
Il libro è una raccolta di nove casi clinici nei quali sono state utilizzate delle canzoni di De Andrè per portare avanti gli obiettivi terapeutici. Il meccanismo utilizzato è quello del distanziamento: il paziente si identifica con il personaggio della canzone con il quale condivide una certa situazione di disagio emotivo, questo gli permette di distanziarsi dalla sua sofferenza e dai suoi elementi conflittuali, per poterla riconoscere più precisamente e più profondamente.
Nei nove capitoli le storie si sviluppano attraverso la sovrapposizione di elementi clinici ricavati dall’esperienza terapeutica e i tratti esistenziali dei personaggi raccontati da De Andrè. Così “La ballata dell’amore cieco (o della vanità)” diventa “La ballata dell’amore di vetro (o dell’anoressia)” e affronta il tema della necessità di essere amati a prescindere; “Un matto (dietro uno scemo c’è un villaggio)” diventa “Un matto fuori (dietro ogni stigma c’è una cultura)” per portare al centro della riflessione non solo il tema dello stigma psichiatrico ma anche il fatto che il vero problema della follia è la negazione del linguaggio del folle; “Canzone del padre” diventa “Canzone del padre depresso” e ci racconta dell’importanza di superare il conflitto con l’autorità/stato, come nel caso del personaggio di De Andrè, e con l’autorità/padre per il paziente; “Un medico” diventa “Un medico ossessivo” per farci scoprire come la nevosi ossessiva può essere la conseguenza del mancato rispetto delle regole divine e la galera quella del mancato rispetto delle regole sociali, cioè della legge. Così su questa falsa riga “La ballata di Marinella” diventa “La ballata di Giusy e Lalla”; “Il pescatore” “Il pescatore Gino”; “La ballata degli impiccati” “La ballata degli impanicati”; “Un chimico” “Un chimico paranoico” e “Il suonatore Jones” “Il suonatore di ricordi”.
S.o.M. In che termini la diffusione della cultura psicologica può portare benefici dal punto di vista socio-sanitario? Il suo può essere considerato anche un lavoro di prevenzione?
Come ho detto prima la lotta contro lo stigma e contro i pregiudizi relativi al disagio mentale è un importante obiettivo di prevenzione secondaria di tali disturbi. La prevenzione secondaria in psichiatria si prefigge infatti di favorire la diagnosi precoce delle patologie mentali, di offrire degli interventi realmente efficaci e di individuare le categorie a rischio. Spesso però questi obiettivi diventano difficili da raggiungere perché i mezzi solitamente utilizzati per diffondere queste informazioni non riescono a raggiungere tutte le fasce di popolazione e soprattutto non sempre sono comprese. Solitamente infatti i convegni, gli articoli sulle riviste specializzate o le trasmissioni televisive a carattere scientifico, usano linguaggi poco comprensibili e soprattutto forniscono informazioni “fredde”. Noi invece usando i canali dell’arte e utilizzando i pazienti o gli ex pazienti che sono gli esperti per esperienza del disagio psichico riusciamo a creare una comunicazione “emotiva” veicolata dall’empatia e pensiamo che in questo modo le informazioni vengano meglio comprese e rimangano meglio in memoria.
Il nostro progetto è nato proprio per questo, per favorire la diffusione di questi temi attraverso l’arte. Pensiamo infatti che sia utile sostenere tutte quelle iniziative che permettono la “contaminazione dei saperi”, così un artista può contribuire alla clinica e il clinico (compreso l’esperto per esperienza) può favorire l’arte.
Fonte: Stateofmind.it
03/07/2013