Riflessione sull’assistenza domiciliare e sui "lager" per persone disabili: Marina Cometto, mamma di Claudia, racconta una delle sue recenti nottate: "mia figlia si lamentava, ho indovinato che aveva sete. In una Rsa l’avrebbero imbottita di Valium"
ROMA – "Le rubo 10 minuti del suo preziosissimo tempo per raccontarle una notte vissuta accanto a una persona con gravissima disabilità": mittente della lettera è Marina Cometto, mamma dio una donna di 40 anni, Claudia, colpita da sindrome di Rett, una grave malattia rara che la rende in tutto dipendente dall’assistenza di chi le sta accanto: la mamma e il papà, nel caso particolare, peraltro non più giovanissimi. Destinatario della lettera è il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. L’oggetto: una notte faticosa, una delle tante notti faticose per questa famiglia come per tante altre, che hanno scelto di "tenere la disabilità in casa", facendosi carico delle cure e dell’attenzione necessarie, anziché "delegare" questo lavoro a una struttura sanitaria.
"La notte 17 luglio – racconta Marina Cometto – mia figlia si è svegliata verso le 4 chiamandomi come è capace, con un continuo ‘aaaaa, eeeee’: suoni che nel nostro comunicare sono sinonimi di ‘qualcosa mi disturba, mi vieni ad aiutare?’. I nostri letti – spiega Marina – distano circa 5 metri l’uno dall’altro e da quando mi hanno informata che la sua patologia, tra le complicanze possibili, ha anche la morte improvvisa, sono ancora più attenta e sollecita nell’ascoltare , anche di notte, anche se ‘dormo’. Quindi, appena l’ho sentita sono andata subito da lei: ho notato che, nel sonno, un braccio le era rimasto bloccato in posizione scomoda e lei, incapace di movimenti volontari, non poteva liberarsi dalla posizione che le procurava dolore. Allora le ho messo il braccio a posto, l’ho girata, le ho cambiato il pannolone, ho messo la sua musichetta preferita, la nostra ‘musicoterapia casareccia’ e sono tornata a letto, nella speranza di riprendere sonno. Non erano passati neppure 5 minuti che ancora una volta Claudia ha iniziato a chiamarmi , nella stessa maniera di pochi minuti prima: sono tornata da lei e tutto sembrava a posto: non erano suoni da dolore, di questo ero sicura. Allora le ho chiesto se aveva sete: lei ovviamente non mi ha risposto , non ne è in grado. Che potevo fare? Faceva caldo, ho pensato che davvero potesse avere sete, così ho preparato due vasetti di acqua gelificata a cui ho aggiunto un po’d’acqua fresca e le ho dato da bere. L’ha bevuta tutta, con piacere e velocemente. Avevo indovinato: aveva sete!".
Dove finisce il racconto, si apre la riflessione. Una riflessione che chiam in causa l’attualità, le decisioni politiche e l’approccio culturale alla disabilità nel nostro paese. "Non ho potuto fare a meno di pensare a ciò che avevo letto solo qualche giorno prima sui quotidiani: il caso della Rsa per persone con disabilità in provincia di Napoli, in cui gli ospiti erano maltrattati, isolati, picchiati: una struttura in cui era presente un solo ‘operatore’ di notte. Mi sono chiesta come sarebbe stata trattata mia figlia Claudia in una emergenza come quella vissuta da noi la notte scorsa, se fosse stata ricoverata in quella struttura? L’operatore l’avrebbe rinchiusa in bagno, affinché non svegliasse tutti gli altri ospiti? Non avrebbe potuto farlo: Claudia non cammina e non credo che chi ‘massacra’ le persone fragili abbia voglia di prendere in braccio 53 chili per trasportarli in bagno. Cosa avrebbe fatto, allora? Semplice: avrebbe fatto trangugiare a Claudia parecchie gocce di Valium, senza preoccuparsi che potesse farle male: tanto, se lei fosse poi passata a miglior vita, chi se ne sarebbe preoccupato? Troppo umano e caritatevole dare da bere a una persona che ha sete: in certi lager, tutto quello che è umanamente fattibile è dimenticato, mentre conta solo il ritorno economico che i Comuni assicurano, senza troppi controlli".
Infine, dopo la riflessione, la richiesta, un vero e proprio appello al ministro: "deve prendere posizione e responsabilità anche verso i Comuni e le Regioni che ‘foraggiano’ ampiamente molte di queste strutture disumane. Una forma di controllo potrebbe essere l’inserimento obbligatorio dei familiari nella gestione della struttura stessa: questa sarebbe una garanzia maggiore, per tutte quelle persone che non hanno proprio nessuna possibilità di essere assistite a domicilio". L’assistenza a domicilio, però, resta sempre l’opzione più desiderabile, sia "perché la maggior parte delle persone preferirebbe stare in casa propria", sia perché "anche per la spesa pubblica questo sarebbe molto meno oneroso. Parliamone – chiede infine la Cometto – Parlatene, coinvolgeteci, ascoltateci: non siate complici di chi abusa di queste persone. Sono i figli fragili della nostra società ed è dovere di tutti occuparsene".
Fonte: Superabile.it
23/07/2013