Criteri di assegnazione delle ore di sostegno agli alunni certificati

Criteri di assegnazione delle ore di sostegno agli alunni certificati

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SULMONA. Mi è molto difficile elaborare in forma organica la molteplicità di idee, sentimenti, sensazioni e convinzioni che mi porto dietro dopo la mia esperienza triennale di insegnante di sostegno nei licei.

Dopo un corso di appena 5 mesi, in cui ci hanno frettolosamente dispensato in pillole i rudimenti del “mestiere”, ripetendoci continuamente che l’Italia ha la normativa più avanzata d’Europa sulla scolarizzazione dei diversamente abili, poiché li integra nelle comuni scuole statali invece di ghettizzarli in apposite scuole speciali, è iniziata la mia avventura, o meglio, la mia apnea. La parola più abusata, ventilata e sventolata da tutte le parti, relativa ai ragazzi diversamente abili è: integrazione. Una parola dal significato quanto mai sfuggente, perché declinabile in direzioni molteplici, rappresentativa come poche altre del meccanismo confusionario e pletorico a cui molto spesso si riduce la scuola italiana; una parola che per tre anni è stata la mia spina nel fianco. Nel mio personale intendimento, integrare un ragazzo disabile a scuola significa garantirgli il rispetto della sua alterità. Rispetto è una parola bellissima. Indica etimologicamente il girarsi indietro per guardare una persona; ammirarla a tal punto da non contemplarla solo davanti, parzialmente, ma anche dietro, nella sua totalità. Rispettare un disabile, come ogni essere umano, vuol dire prima di tutto conoscerlo, e imparare dunque a non temerlo, ma ad amarlo. Esattamente per quello che è. Senza ipocrisie e mistificazioni. Imparare a riconoscere tutta la ricchezza che, al pari di ogni altro essere umano, anzi, più di ogni altro, sa offrirci, proprio in virtù della sua diversità che, lungi dall’essere un limite, deve diventare il suo punto di forza. Garantire il rispetto dell’alterità, a scuola, secondo il mio alfabeto significa prima di tutto non negare l’evidenza. La scuola è un luogo dove si cresce umanamente grazie alla cultura, e non un centro sociale. I ragazzi disabili hanno il diritto di andare a scuola non solo per socializzare, ma soprattutto per imparare, nel rispetto delle loro capacità e competenze. Troppo spesso ho assistito, invece, alla totale negligenza dell’aspetto strettamente didattico, considerato quasi sempre opzionale. Ci si arrende, o meglio, ci si vuole arrendere di fronte ai presunti limiti cognitivi dei ragazzi disabili, non investendo alcuna energia e qualificando la propria attività di sostegno come volta all’aspetto “affettivo- relazionale”: definizione dietro la quale si nasconde sostanzialmente il nulla. Questa, ben lungi dall’essere la strategia vincente per l’integrazione, è la peggiore discriminazione che si possa compiere, il peggior danno che si possa perpetrare verso chi è più debole. Ho visto nella maggior parte degli alunni che ho avuto, e paradossalmente proprio in quelli con un ritardo mentale alquanto grave, una tale tenacia nello studio, una tale sete di imparare, una tale gioia per le nuove, piccole scoperte quotidiane, che non saprei esprimere a parole ciò che si prova togliendo l’opaco da quegli occhi. Con questi alunni ho svolto al liceo contenuti da scuola elementare, spesso neanche tutti accessibili. Mi rifiuto però di dar ragione a quanti, colleghi compresi, parlano di impossibilità di un vero progresso da parte degli alunni disabili: è chiaro che il comune concetto di progresso didattico è inapplicabile a questi ragazzi, per la semplice ragione che, come diceva don Milani, “non si possono fare parti uguali tra disuguali”. Il rispetto per la loro alterità impone di usare un metro adeguato, cioè proporzionato alle loro abilità, per poter valutare i loro miglioramenti. Ecco la cruda realtà di un triste paese che ha la normativa più avanzata d’Europa in materia di handicap.

di Angelica Zappelli

Fonte: Il Centro

17/04/2012