Stadio gratisi – La politica non conosce vergogna! – Ferrante Claudio Presidente Associazione Carrozzine Determinate Abruzzo

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L’esperienza dell’associazione St.Martin: "L’idea è che non si debba offrire assistenza al vulnerabile, ma rafforzare l’abile. La priorità non è rispondere ai bisogni della persona disabile, ma creare intorno a lei una comunità consapevole e capace di accoglierla"

ROMA – È il 1997 quando don Gabriele Pipinato, sacerdote veneto in missione in Kenya, si reca presso le famiglie della sua diocesi, Nyahururu, per impartire la rituale benedizione. Una donna gli apre la porta e gli chiede di benedire un po’ tutto: persone, animali, ambienti. D’un tratto, don Gabriele sente un rumore, preveniente da un angolo della casa. Riverso in un pavimento sporco di escrementi, c’è un ragazzo disabile, cerebroleso. "E lui chi è?", chiede il sacerdote alla donna. "E’ mio figlio". "Ma come – replica sorpreso il prete – Non mi chiedi di benedire anche lui?" "Perché, è possibile farlo?", domanda incredula la donna. Nasce in quel momento, nella testa di don Gabriele, l’idea di St. Martin: un’esperienza sociale, spirituale e culturale, che si pone subito l’obiettivo di rafforzare le comunità locali e la loro consapevolezza rispetto alla malattia e alle disabilità. Un’esperienza raccontata nell’inchiesta pubblicata nel numero 6 della rivista SuperAbile.

Luca Ramigni ha trascorso cinque anni presso St. Martin, lavorando come fisioterapista all’interno del programma dedicato alle persone con disabilità. "Dopo l’incontro con quella donna – ricorda – don Gabriele radunò undici volontari e si pose, come primo obiettivo, quello di contare quante persone disabili ci fossero nel territorio: su una popolazione di circa 500mila abitanti, ne trovarono oltre 2mila. Vivevano tutti nascosti in casa, occultati dalle loro famiglie, che li consideravano una maledizione. Io sono arrivato a Niahururu circa sette anni dopo: posso assicurare che di disabili nascosti non ne ho trovato più neanche uno": Un miracolo? No, il frutto di un lavoro molto complesso e articolato, che si basa su un concetto fondamentale, quasi il "motto" dell’associazione: "Only through community".

È la comunità, infatti, il cuore pulsante dei cinque programmi, dedicati rispettivamente ad Aids-droga-alcol, non violenza, microcredito, ragazzi di strada e disabilità. L’idea, tutt’altro che facile da percorrere, è che non si debba offrire assistenza al vulnerabile, ma rafforzare l’abile. Nel caso della persona disabile, quindi, la priorità non è rispondere ai suoi bisogni, ma creare intorno a lei una comunità consapevole e capace di accoglierla". Certo, il cambiamento culturale è difficile e mai definitivo: "Certe credenze – spiega Ramigni – sono difficili da sradicare. D’altra parte, anche qui in Italia ci sono famiglie che considerano la disabilità del figlio una sorta di punizione. A Nyahururu, tuttavia, una grande trasformazione è avvenuta e, lentamente, sta contagiando anche le zone limitrofe".

St. Martin nasce ufficialmente nel 1999 e in questi 13 anni è cresciuta fino a diventare una realtà molto importante nel territorio: una zona rurale del Kenya, a due chilometri dall’Equatore, abitata per l’80% da contadini. Gli undici volontari iniziali sono diventati oggi più di 1.000 e sono tutti kenyani. "Oggi consideriamo quasi conclusa la prima fase del lavoro, dedicata alla consapevolezza – continua il fisioterapista. "Sta iniziando il secondo momento, che si pone un obiettivo ancora più alto: l’advocacy, cioè la rivendicazione dei diritti, la partecipazione attiva alla vita politica e sociale della comunità da parte delle persone disabili e delle loro famiglie. Accanto a questo lavoro, c’è naturalmente anche quello pratico, che consiste nel fornire assistenza e supporto a chi ne ha bisogno: ogni anno, vengono seguite circa 600 persone con disabilità. Ma il centro resta sempre la comunità, che è chiamata ad attivare tutte e sue risorse. Accade spesso, per esempio, che si chieda alle famiglie di adottare un bambino o un ragazzo orfano o disabile. E la grande disponibilità che mostrano è segno del successo di questo metodo comunitario, basato sulla fiducia. Vedendo un bambino povero, nudo e affamato, sarebbe spontaneo offrirgli soldi, vestiti e cibo. Ma è molto più importante creare intorno a lui una comunità capace di accoglierlo e di provvedere ai suoi bisogni". È questo il motivo per cui, a St Martin, non lavora più nessun europeo. Persino gli ausili, oggi, li costruisce Timoty, un giovane di Nyahururu che, dopo un percorso formativo a Mombasa, ha frequentato nei mesi scorsi un corso di perfezionamento da parte di una delegazione inglese: d’ora in poi, costruirà ausili. Ausili di cartone. Ma questa è un’altra storia. Ed è appena cominciata…

Fonte: Superabile.it

16/08/2012