Di Maria Laura Falduto e Pasquale Romeo
La solitudine è una spia indicatrice di una normale condizione di benessere specie se vissuta con equilibrio e in maniera sintonica con se stessi. La capacita di stare soli è un elemento fondante, come diceva Winnicott e non dipende dalla vicinanza fisica. Si può star soli anche in compagnia e sentirsi in compagnia essendo soli.
La solitudine riguarda più campi ed è fonte di studio e di confronto fra varie branche della filosofia, della letteratura, dell’antropologia e della psichiatria da secoli. Argomento intriso di molteplici significati, appare come una finestra sul mondo nel campo delle scienze umane e sociali, riflettendo uno spettro di condizioni che vanno dall’appartenenza e differenziazione dell’adolescente alla noia ed alla paura dell’anziano. La solitudine, condizione imprescindibile della nostra identità, definisce chi siamo per noi stessi e per gli altri, può fungere da fattore predisponente di alcune patologie come la depressione o al contrario essere altresì un potente cuscinetto specie in età adolescenziale tra l’accettazione di sé e quella dei propri pari.
L’essere umano comincia a fare i conti con la solitudine proprio nella fascia di età che dalla pubertà si snoda verso l’età adulta, trovando il suo fulcro principale nell’adolescenza: in questa particolare fase, l’identità in formazione del ragazzo oscilla tra il bisogno di indipendenza, la ricerca dei propri spazi ed esperienze e quello di sicurezza-attaccamento verso le figure socio-affettive più prossime. E’ in questo periodo, caratterizzato da profondi cambiamenti sia fisiologici che strutturali che anche la dimensione affettiva e cognitiva viene investita e caricata di significati molteplici.
L’adolescente può vivere come un marchio d’infamia la condizione dell’essere solo e manifestare disagio in varie forme. E’ sorprendente, ma oltretutto preoccupante, scoprire da recenti studi nell’ambito della neuropsicologia, quali quelli condotti da U. Sabatello nel 2010 sulla devianza giovanile e sui disturbi della condotta, come molti dei pre-adolescenti autori di reati, ai test psicologici ottengano un alto punteggio nelle scale della depressione e dell’ansia. Ciò pone i clinici e gli esperti di fronte all’esigenza di valutare attentamente i loro ruoli per sostenere al meglio il ragazzo nel raggiungimento dei suoi compiti evolutivi.
I teenagers percepiscono negativamente la solitudine e vi associano rabbia e tensione. Sembra una resistenza notevole alla crescita e quindi in senso lato al cambiamento, impedendo il gioco dei processi identificatori e il nascere della creatività. Elaborare e saper accettare il proprio senso di solitudine è una condizione imprescindibile per diminuire il proprio senso di separatezza: la sperimentazione della solitudine si rivela quel quid di svolta per l’affermazione della propria identità: stare con sé stessi, per sperimentarsi, diventa condizione preliminare al saper stare con gli altri.
E’ come, se ad un tratto, si togliesse di dosso la coperta di Linus (o l’oggetto transazionale per dirla alla Winnicott) e si facesse della solitudine sperimentata qualcosa di nuovo, una verità che non riscalda ma illumina! La gestione della solitudine in questa età può costituire un frutto prelibato, come la mela di Adamo, foriero di sofferenza ma anche di conoscenza.
Tuttavia, la capacità di avvertire la solitudine muta con la situazione contingente come se il nostro apparato psichico ne modificasse la soglia di percezione in base alle circostanze: nella condizione senile per esempio, la solitudine sembra maggiormente stigmatizzata, non per niente la depressione dell’anziano ha una prevalenza notevole divenendo patologico. Le perdite associate al normale decadimento legato all’età quali la perdita dell’udito per esempio, possono influire sulla percezione di solitudine e d’esclusione sociale, e conseguentemente limitare le interazioni sociali.
Notevole importanza assumono senza alcun dubbio fattori sociali importanti quali il pensionamento e la perdita del ruolo sociale, la capacità d’essere utile agli altri, la mancanza di hobbies e la progressiva perdita delle performance cognitive e percettive che incidono sul vissuto del soggetto e sul suo usuale svolgimento delle azioni della vita quotidiana. Per tal motivo la vecchiaia diventa una malattia se non sufficientemente preparata in gioventù, se la vita non è stata prudentemente arricchita da ulteriori interessi oltre che da adeguati sostegni affettivi.
Parallelamente alla solitudine sperimentata dall’anziano, quella del malato mentale è altresì invalidante: Borgna la definisce sia morale che sociale, sia endocentrica che esocentrica, poiché coinvolge il singolo nello stare con sé stessi ma anche con gli altri. Una solitudine che si esercita su sé stessi depauperandosi dei propri oggetti interni, in una vuotezza del presente ed una mancanza di progettualità futura. Una solitudine condizionata dal proprio deserto interiore, o dal popolamento di oggetti persecutori. Il malato intrattiene un monologo con sé stesso sempre più povero nel contenuto e nella forma, un monologo che si riduce al pronome personale Io.
La solitudine è intimistica, cioè appartiene alla sfera del privatissimo “non è spesso condivisibile” suscitando dei sentimenti conflittuali di amore e di odio. E’ possibile parlare in un salotto, mentre si banchetta in compagnia, tra amici di un argomento così privato quale la solitudine? forse no! Nella solitudine vi sono le radici dell’essere, con la solitudine emerge ciò che c’è di più vero e profondo. Diventa un argomento salottiero se se ne sviscera la sua parte più estroversa vale a dire la riflessione di sé per stare meglio con gli altri. Se è possibile fare quello che dice Tibullo “Sii una folla per te stesso” allora è possibile anche stare con gli altri essendo soli (P. Romeo, 2008).
Forse in quest’ultima definizione sta il segreto della sana solitudine vincendo l’usuale paradosso secondo cui non si può essere contemporaneamente con e senza l’oggetto.
Fonte: Stateofmind.it
18/01/2013