La Rai programma per l’ottobre 2013 la messa in onda di "Un matrimonio", serie tv in sei puntate sul primo canale diretta da Pupi Avati, nella quale recita anche l’attrice Antonella Ferrari. Lei, che non sopporta la tv "lacrimevole", ama interpretare ruoli comici e antipatici, rivendicando "il diritto dei disabili alla cattiveria". Ecco come racconta se stessa
ROMA – La tua storia potrebbe essere "di aiuto a tanti": così la Mondadori l’ha convinta, dopo che a lungo ci avevano provato i suoi amici, a raccontarsi in un libro. Antonella Ferrari, 42 anni, ha un ricco curriculum da attrice teatrale e televisiva, insieme a due originali e coloratissime stampelle. La sclerosi multipla ha interrotto bruscamente la sua carriera, ma lei non ha voluto abbandonare il palco: caparbiamente, continua a proporsi a registi e produzioni. Dopo essersi fatta conoscere al grande pubblico con la soap opera Centovetrine, ha coronato uno dei suoi sogni più grandi: lavorare diretta dal regista Pupi Avati.
Pochi giorni fa la Rai ha deciso di programmare per la prossima stagione televisiva, probabilmente per il mese di ottobre 2013, la messa in onda di "Un matrimonio", serie televisiva in sei puntate diretta che racconterà più di cinquant’anni di storia italiana vissuta in famiglia. La serie, realizzata dalla Due A di Antonio Avati per Raifiction, vede come protagonisti fra gli altri Micaela Ramazzotti, Flavio Parenti, Christian De Sica, Katia Ricciarelli, Andrea Roncato, Mariella Valentini, Valeria Fabrizi, Maximilian Dirr e proprio Antonella Ferrari. "Ha saputo apprezzarmi come attrice e non solo come donna disabile", dice Ferrari riferendosi a Pupi Avati. "Non mi ha messo alla porta dopo aver visto la mia cartella clinica, come hanno fatto tanti altri, ma non ha usato con me un trattamento di riguardo: voglio essere sgridata quando sbaglio, senza nessuna compassione".
Mentre era impegnata nelle riprese della serie tv, il suo libro "Più forte del destino. Tra camici e paillettes la mia lotta alla sclerosi multipla", ha conosciuto il successo editoriale: alla sua uscita è entrato nella classifica dei più venduti e è subito arrivata la necessità di una ristampa. In tanti, ogni giorno, scrivono ad Antonella ringraziandola per la sua testimonianza. Chiara Ludovisi l’ha intervistata alcuni mesi fa per il mensile SuperAbile Magazine. Vi riproponiamo il testo di quell’intervista.
Con il suo libro si aspettava questo successo?
No, anzi: quando gli amici cercavano di convincermi, a me sembrava assurdo scrivere un libro su un’esistenza simile a quella di tanti altri. Quando però me l’ha proposto l’editore, ho colto la palla al balzo. Ho passato lunghi mesi a scrivere la mia vita, anche con grande dolore: è stata una sorta di psicoterapia. Ora sono felice per questo successo inaspettato: il successo di una storia qualunque e di una persona che racconta non solo i suoi traguardi, ma anche le cadute e il modo in cui si è rialzata.
All’inizio del libro racconta il modo in cui si è ricostruita un’identità all’indomani della diagnosi. Cos’è accaduto?
Per me la diagnosi è stata una buona buona notizia: il periodo peggiore è stato quello in cui stavo tanto male, ma la mia patologia non aveva un nome. I medici mi classificavano come "stressata", la gente faceva lo stesso. Le persone si attaccano ai nomi: quando ti viene riconosciuto un tumore, allora sei autorizzato a considerarti malato; quando ti è diagnosticata la sclerosi multipla, solo allora sei autorizzato a sentirti disabile. Quando invece stai molto male, ma non sai cos’hai, non sei neanche autorizzato a stare male. È triste, umiliante, orribile. Dopo la diagnosi, potevo iniziare a combattere contro qualcosa che aveva un nome.
All’inizio nascondeva la malattia?
Sì, per poter continuare a lavorare; ogni volta che mi presentavo con le stampelle, mi dicevano: «Torna quando stai meglio». Poi ho capito che le stampelle stavano diventando sempre più parte della mia vita: era meglio dichiarare il mio problema di salute e lanciare il messaggio che non c’è niente di cui vergognarsi. Molti nascondono la sclerosi multipla come se fosse un morbo che può attaccarsi. Noi persone pubbliche abbiamo il dovere di dichiarare i nostri problemi, per far sì che anche altri escano allo scoperto. Ovviamente, sono contenta se in una trasmissione posso parlare di altri argomenti che non siano la mia malattia, ancor più se posso interpretare un personaggio che non ha a che fare con la disabilità. Al tempo stesso, però, come madrina dell’Associazione italiana sclerosi multipla, sento tutta la responsabilità di arrivare al grande pubblico con la mia esperienza.
Attrice e testimonial: difficile conciliare i due ruoli?
Sì, spesso si crea l’equivoco: in Centovetrine, all’inizio tutti pensavano che le stampelle fossero un accessorio di scena. Quando poi si è scoperta la verità, allora si è scatenato il buonismo, sono diventata "la prima attrice disabile italiana", molti hanno esultato dicendo che il nostro Paese è pronto a questo cambiamento culturale. Ma l’Italia non è pronta affatto: nel mio lavoro ho trovato e continuo a trovare tante porte chiuse; da una parte, mi chiamano in tv per parlare della mia vita e della mia malattia. Allora mi fanno grandi complimenti, ma io preferirei meno lodi e più lavoro
Perché è così difficile fare tv per un’attrice disabile?
Il principale timore dei produttori è che io possa farmi male sul set e la copertura assicurativa non sia idonea. L’altro ostacolo è il ruolo: è diffusa la convinzione che una persona disabile possa recitare solo la parte di un disabile, ma non è così. Se devo interpretare una persona non disabile, le stampelle possono diventare semplicemente un dato di fatto, senza essere argomentate. Per esempio il Doctor House è disabile, ma se non lo fosse sarebbe uguale: la sua disabilità non è tematizzata. Anche l’anatomopatologo della serie Csi: in quel caso, l’attore è realmente disabile, per di più impegnato a combattere proprio per l’inserimento lavorativo degli attori disabili. Ma nella serie tv la sua disabilità resta sullo sfondo. E lui riesce sicuramente ad avere più lavoro di me.
Gli Stati Uniti, quindi, sono più avanti?
Decisamente. In Italia tendiamo a fare una tv lacrimevole. E la disabilità è rappresentata con tanti stereotipi: di solito i personaggi disabili sono sfortunati e buoni. Io, invece, amo interpretare ruoli comici e antipatici. Rivendico con forza il diritto dei disabili alla cattiveria.
Nella sua malattia si verificano spesso ricadute. Come condizionano il suo lavoro?
La paura è sempre forte. Molti mi dicono che sono ansiosa, perché quando ho un lavoro già penso a procurarmene un altro. Ma la mia concezione del tempo è diversa: oggi ce la faccio, domani non lo so. Dopo un anno e mezzo sulla sedia a rotelle, sono riuscita a rialzarmi. Chissà cosa accadrà domani…
Cosa consiglierebbe a una persona disabile che volesse cominciare la sua professione?
Studiare, studiare, studiare. Oggi si pensa che per entrare nel mondo dello spettacolo basti un reality, ma non è così. Soprattutto per una persona disabile, la strada da fare è tanta: bisogna essere molto più bravi degli altri. Prospettive per il futuro? Voglio scrivere un altro libro e continuare a comunicare con le persone anche con questo linguaggio. Intanto busso alle porte di registi e produttori, perché qualcun altro mi offra un ruolo.
Fonte: Superabile.it
11/04/2013