La lettera del papà di un bambino con Sindrome di Down, spostato in una scuola "speciale"
Milano, 16 settembre 2013
Salve a tutti; dopo quattro anni in una scuola "normale", abbiamo deciso di iscrivere nostro figlio Giulio (sindrome di Down) ad una scuola "speciale". È stata un scelta complessa, meditata e condivisa; quelle che seguono sono alcune riflessioni scaturite da parte mia nei giorni immediatamente successivi a quella decisione. Un pensiero fatto, a mio parere, di grandi speranze ma anche di grande fatica. Buona lettura, per chi vorrà.
Milano, 8 giugno 2013
Un cambiamento importante viaggia spesso con una fatica, una sofferenza, un dolore. E quando non è dolore, è riflessione e pensiero su quello che si lascia e perché. È un passaggio obbligato, anche quando il "nuovo" verso cui si è deciso di guardare ci piace, ci convince, ci rassicura.
40 anni fa, in una delle borgate più emarginate di Roma, mia madre, fresca direttrice di una scuola elementare dove la povertà e la disperazione erano all’ordine del giorno, con una passione e una dedizione che non ho mai più incontrato, combatteva e vinceva la sua battaglia affinché nella sua scuola si affermasse e vincesse l’integrazione di tutti con tutti. Era una rivoluzione, e la sua battaglia le ha causato ferite e sofferenze, ma so che, ancora oggi, all’ età di 91 anni, ripercorrerebbe strenuamente la stessa strada. Ero un adolescente o poco meno, ma fu una lezione di vita e di partecipazione che non dimenticherò mai.
In questi giorni di ricordi e di pensieri, ciò che più mi risuona di quell’esperienza era la modalità: dove la passione prevaleva sulla ragione ma non sulle regole, ovvero: "Scelgo ciò che ritengo giusto e fa star bene e crescere la società; con questa certezza so di essere in grado di trovare le regole all’interno delle quali calare questo progetto. E se le regole non ci sono o non sono abbastanza adeguate al progetto, spenderò tutte le energie necessarie affinché siano predisposte nuove regole o adattate nel miglior modo possibile quelle esistenti".
Ma quel progetto, quella focalizzazione sul bene del bambino e sul valore del suo completo inserimento nel mondo dei "normali" rimaneva in cima al pensiero e alle azioni di mia madre.
Sono passati tanti anni e tanti sono stati i passi avanti fatti, sia nella regole che nella naturale predisposizione di tutti verso questo senso di civiltà e di società aperta, accogliente e solidale.
Così, per una di quelle combinazioni che a volte penso non fanno che confermare che non ci sarà un "disegno divino" ma non può essere tutto così casuale, dopo tanti anni mi sono ritrovato sulla stessa barca. Per questo (e non solo) dedico qualche ora e qualche riga a riflettere su questi anni, su questi quattro anni vissuti in una scuola dove Giulio ha trascorso le sue giornate e dove è cresciuto.
Abbiamo fallito. Tutti. Tutti e indistintamente. Io come padre, noi come famiglia, le insegnanti, i dirigenti, le famiglie, gli operatori che a vario titolo seguono e curano Giulio. Abbiamo fallito perché la buona volontà e le energie che abbiamo speso non erano sufficienti, in quantità e qualità. Abbiamo fallito perché sentirci impotenti fino al punto di iscrivere Giulio in una scuola speciale (lo stesso tipo di scuola contro cui mia madre si batteva quaranta anni fa) significa che avevamo "speso" tutto quello che potevamo spendere. Abbiamo fallito perché abbiamo rincorso le nostre tensioni personali e i nostri "ruoli" senza metterci abbastanza in gioco e in discussione.
Lungi da me concludere che, avendo fallito tutti, non ci siano responsabilità individuali. Anche in casi di fallimenti "collettivi" a mio parere ciascuno deve sentirsi responsabile e a suo modo provare ad immaginare dove, come e quando ha commesso un errore, una leggerezza, una mancanza. Da parte mia ne ho riconosciute tante, non ho remore nel cercare di capire e provare a migliorare. Ma non siamo "singoli" messi assieme casualmente. Non basta un esame di coscienza personale per una qualche forma di catarsi individuale. Se siamo assieme e assieme lavoriamo assieme sui nostri figli, non è solo perché questi crescano sani ed educati. È perché la somma dei nostri agire è superiore alla somma aritmetica di ciascuno di noi. Quello a cui partecipiamo con il nostro contributo si chiama società, si chiama sistema valoriale, si chiama partecipazione e solidarietà. E se qualcosa non funziona, non possiamo permetterci il lusso di difenderci dietro un "ho fatto quello che potevo", "ho fatto il mio dovere", "ho fatto tutto con responsabilità". Dobbiamo avere o trovare la forza e il coraggio di andare oltre, di metterci in discussione, di interagire con gli altri che partecipano al progetto, di criticare e di ascoltare le critiche. Ci sta tutto e non lo nego: il dolore e la ferita non rimarginabile di noi genitori, la dignità professionale degli insegnanti e degli operatori, il rispetto delle regole dei dirigenti, la partecipazione emotiva dei genitori e dei loro figli. Ma questa volta non è bastato. Questa volta abbiamo rinunciato al "progetto". Proviamo tutti ad avere e credere un po’ più di visione, un sogno. Giulio starà bene, crescerà e vivrà serenamente dentro alle sue difficoltà e alle sue fatiche. Tutti noi staremo bene e ce la caveremo egregiamente pur nell’altalena delle gioie e dei dolori. Non è in discussione il nostro "orticello" di singoli, già ben concimato e al tempo stesso impegnativo e a volte faticoso. Proviamo tutti a farci un regalo e a confrontarci; momenti come questo sono dei veri e propri passaggi a vuoto dentro a quella "visione" che fa parte di noi stessi. Non è un incidente di percorso e nemmeno un episodio casuale; è sintomo di qualcosa di più profondo e intenso, non perdiamo l’occasione di rifletterci.
Buona vita a tutti.
Claudio
Fonte: Disabili.com
27/09/2013