Garibaldi, disabile moderno

Garibaldi, disabile moderno

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«Lotto con la sclerosi multipla e mi occupo della formazione dei disabili e dello studio dei flussi turistici dei portatori di handicap: un business, che male c’è?»

Una delle parole più ricorrenti nel suo vocabolario è «chissenefrega». Ma in un’accezione ambrosiana, pragmatica, ispirata dalla volontà di non dare troppa importanza alle difficoltà, anzi di ignorarle per concentrarsi sulle opportunità. Del resto, da una trentina d’anni, l’intera esistenza di Aldo Maria Arrigoni – milanese dal dialetto istintivo – potrebbe essere riassunta in un grande «chissenefrega». Riferito alla sclerosi multipla, che lo ha costretto a familiarizzare con una sedia a rotelle e con tutti i limiti e i pregiudizi che accompagnano chi sta su quello che lui definisce «un mezzo di trasporto». Al punto che l’ha trasformata in un nuovo mestiere, anzi in più di uno: la formazione al lavoro dei disabili e lo studio dei flussi turistici dei portatori di handicap. «Perché è un business – dice con la sua parlata tremendamente milanese – perché soltanto in Europa si parla di quasi mezzo milione di persone, e un disabile non viaggia mai da solo… Ue’, son soldi. Cos’hanno di male i danè di uno in carrozzina?».

Arrigoni, come viveva la sua Milano prima della malattia?

«Divertente. Sì, certo, anche perché ero giovane, ma credo fosse davvero una città vivace, piacevole, vitale, più sorprendente rispetto a oggi. Io di giorno ero studente di Scienze politiche e uno dei tanti che credeva – e un po’ me ne vergogno oggi – di fare la rivoluzione assieme ai vari Mario Capanna. Di notte facevo il volontario per la Croce bianca e avevo così occasione di vedere volti e situazioni diverse. Dalla borghesia di via Bigli ai lavoratori immigrati di Quarto Oggiaro. Al bar, alle 5 del mattino, incrociavi gli operai che si facevano il Fernet… Insomma era una città più variegata, dove era più facile fare amicizia con una battuta in dialetto. Magari in via Bigli un po’ meno, però tra tutti c’era sempre qualcosa da dirsi».

E poi cosa è successo?

«Non lo so, ma qualcosa è cambiato nello spirito stesso dei milanesi, e non credo sia dovuto all’immigrazione straniera. Intendiamoci, Milano resta una città piacevole e ricca di cultura, però ricordo che quando, alla fine degli anni Settanta, come responsabile vendite di una grande azienda, viaggiavo molto nelle capitali come Londra o Parigi e anche nelle città del blocco comunista, ogni volta che tornavo qui realizzavo quanto Milano fosse accogliente, a dimensione umana. Oggi invece mi pare che i soldi siano l’unica forma di comunicazione, le relazioni umane si sono affievolite».

Poi la malattia. È cambiata la sua percezione della città?

«Certo, la malattia mi ha permesso di scoprire cose diverse. Però: cos’è una disabilità? È semplicemente una funzione inibita. Non mi funzionano una gamba e un braccio. Però se nel frattempo ho ottenuto un Phd da un’università americana vuol dire che la testa funziona ancora, no? E allora chissenefrega della gamba! La carrozzina? Serve per farmi muovere, è una cosa positiva. Ecco, è così che ho continuato a muovermi per Milano e ho scoperto che, tutto sommato, è una città abbastanza fruibile anche per un disabile. Da viale Argonne a piazza San Babila, ho fatto la prova, ci sono solo due barriere, e qualcuno che ti aiuta lo trovi».

Appunto, che atteggiamento hanno i milanesi nei confronti di un disabile?

«Io non sopporto gli sguardi pietosi che ti dicono “poverino”, ma se uno mi dà una mano mi fa piacere. È una cosa molto milanese. Potrei raccontarle tanti episodi belli. Questa città non è affatto persa. Certo devo molto a persone come Franco Bomprezzi, morto da poco, che mi ha insegnato ad “andare” in carrozzina e a personaggi come Roberto Brivio, che mi ha trasmesso la capacità di ridere e di far ridere sempre e di tutto. Per questo sono molto legato allo Zelig, dove ho anche fatto cabaret con i disabili».

Quindi Milano è una città fruibile per un disabile?

«Calma. Sono andato in piazza Gae Aulenti e non ho avuto problemi, però ci sono tanti palazzi storici difficilmente accessibili. E poi i taxi: soltanto da un annetto ce ne sono una ventina con il montacarrozzine. Un mio amico australiano, anche lui disabile è venuto a trovarmi. Da casa sua a Malpensa si è fatto 26 ore di viaggio tranquillissimo. Il problema è stato portarlo a vedere il Duomo. Che senso ha? Per questo io lavoro per far sì che tutti i disabili che vogliono venire a Milano sappiano che, per esempio, possono andare a vedere il Codice atlantico di Leonardo alla Biblioteca Ambrosiana, perfettamente accessibile. E se ci devono andare in carrozzina… chissenefrega».

03/02/2015