MILANO. Altro passo avanti nella lotta alla SLA, la sclerosi laterale amiotrofica. Un gruppo di ricercatori italiani dell’Istituto Mario Negri di Milano ha scoperto che la mancanza di un particolare enzima è responsabile della rapida progressione della malattia. Un risultato importante, pubblicato dalla rivista Brain, che pone le basi per un possibile e innovativo intervento farmacologico delle malattie neurodegenerative.
La SLA è una malattia neurodegenerativa che colpisce i motoneuroni. Per motivi ancora in gran parte da chiarire queste cellule vengono distrutte e la persona colpita va incontro a progressiva perdita del controllo muscolare sino alla paralisi respiratoria. Secondo le ultime stime in Italia la malattia colpisce 3 persone ogni 100 mila e attualmente sono circa 4 mila le persone a soffrirne. La scorsa estate, per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della ricerca e del sostegno alle famiglie dei malati, è stata lanciata la moda dell’Ice Bucket Challenge, una sfida che consisteva nel rovesciare un secchio di acqua ghiacciata sulla testa, filmarsi e successivamente postare il contenuto video sui social. La campagna ha riscosso enorme successo e si calcola che nel nostro Paese, in poco più di un mese, Aisla –l’Associazione Italiana per la SLA- abbia raccolto quasi 2,4 milioni di euro.
Purtroppo ad oggi, nonostante gli sforzi della ricerca, la malattia non ha ancora una cura. Una speranza però potrebbe arrivare dallo studio degli scienziati italiani. La ricerca, partendo dalla dimostrazione che una particolare proteina (TDP-43) è anomala nella grande maggioranza dei pazienti affetti da SLA, ha stabilito che ciò dipende da un enzima chiamato PPIA.
Come spiega Valentina Bonetto, coordinatrice dello studio, «A conferma del ruolo importante di questo enzima abbiamo visto che la sua mancanza, in un modello di SLA nel topo, accelera la progressione della malattia. Non solo, una relativa carenza dell’enzima è stata riscontrata in vari modelli cellulari e animali di SLA, nonché nei pazienti con SLA sporadica». Un’evidenza che ha portato i ricercatori milanesi a formulare l’ipotesi che l’enzima in questione possa svolgere un effetto protettivo nei confronti dei motoneuroni. Un risultato straordinario in quanto ora, avendo identificato un bersaglio chiave nello sviluppo della malattia, sarà possibile agire su di esso nel tentativo di frenare la malattia.
«Questi risultati –aggiunge Caterina Bendotti, una delle autrici dello studio- prospettano la possibilità di ottenere un effetto terapeutico attraverso la stimolazione o la sostituzione della PPIA». Una prospettiva terapeutica il cui possibile beneficio potrebbe essere esteso ad altre malattie –in cui il difetto sembrerebbe essere comune- come la demenza fronto-temporale e l’Alzheimer.
Daniele Banfi
Fonte: La Stampa.it
23/02/2015