Cibo, Restrizione Alimentare & Senso di Colpa – 01/03/2013

Cibo, Restrizione Alimentare & Senso di Colpa – 01/03/2013

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Intervista a Claudia Marzocchi di Gianni Saporetti
Venticinque anni accanto a una figlia con gravissimi problemi di disabilità, con tutti i tempi della vita quotidiana letteralmente “irregimentati”, come «in una fionda, con l’elastico sempre tirato». Poi la situazione che peggiora, fino ad arrivare al dopo… al ritorno a una vita “normale”, con la libertà, ma anche con un grande vuoto e il senso di «qualcosa di intangibile che ti manca»…

Sappiamo che avere un figlio con gravi problemi diventa una ragione di vita quasi totalizzante. Ma poi, quando non c’è più?
«Per un verso, forse è brutto dirlo, ti senti libera, perché ti riappropri dei tuoi tempi, di una vita più normale. La settimana dopo che è morta Margherita, mi sono trovata una sera a tornare verso casa, meravigliandomi del fatto che quello era un orario in cui io mi ero dimenticata di poter essere in centro a passeggiare. Camminando, mi son proprio sentita strana: “A quest’ora di sera, sono in centro, cammino verso casa, non ho fretta”. Camminare alle sette di sera verso casa era anomalo…
Quindi, certo, c’è questo senso di libertà, di essersi sganciati da un obbligo gravoso, da una costrizione veramente, veramente difficile da sopportare. Che poi si sopporta, perché io, credo di poterlo dire, l’ho sopportata e l’ho sopportata molto bene. Però la costrizione è veramente pesante. È un po’ come se per venticinque anni mi avessero tenuta in una fionda con l’elastico tirato. Lì, costretta. Ad un certo punto vieni mollato e bam!, tu parti e non sai verso dove, come ti senti, cosa sta succedendo, se andrai a sbattere. Sì, comunque ti senti libera.
Per un altro verso c’è un senso di mancanza, perché l’impegno è anche una grande motivazione, è un investimento, ti senti – e sei – molto importante. Qualcuno dipende da te e questo, se dà una grande costrizione, dà anche un senso forte alla tua vita. La mancanza, poi, la senti nel tuo quotidiano, dove le tabelle di marcia forzatissime, tutta un’organizzazione precisa al minuto, una tempistica della giornata dominata da una priorità assoluta, imprescindibile, sempre e comunque; tutto questo, improvvisamente, non c’è più. Anche mentalmente, perché poi metti su dei riflessi condizionati. Dalla poltrona, se guardo la televisione o leggo, e le porte sono aperte, vedo il corridoio e la camera da letto. E i primi tempi che lei non c’era più, mi veniva da voltarmi per controllarla, perché l’ho fatto talmente tante volte… o abbassavo la televisione come se lei fosse di là e stesse dormendo.
Allora, se per un verso ti senti libera, per un altro ti senti anche come se ti fosse venuto meno il terreno sotto i piedi, un po’ ti senti leggera e un po’ ti senti sgomenta. Perché poi libera di far cosa? Devi ripensare e riorganizzare completamente tutto e non hai proprio più la mano. Ecco, c’è un aspetto che è di vuoto, di vacuità.
Poi sono riuscita ad andare in Puglia, a trovare un amico che era da anni e anni che mi diceva di andare, e sono riuscita anche ad andare in Bosnia a incontrare delle persone di un’associazione per le adozioni a distanza. Mi ha accompagnato l’altro mio figlio Federico che, nei primi tempi dopo la morte di Margherita, si è dedicato a me tanto. Per dire, questo proprio nei primi due o tre mesi dopo che non c’era più Margherita. Poi sono riuscita ad andare a Londra dove sono nata e non c’ero mai più tornata. Anche questo con Federico, che c’era andato abbastanza spesso e la conosce, e che mi aveva sempre detto: “Quand’è che vieni a Londra, quand’è che vieni a Londra?”. Soprattutto gli ultimi due o tre anni gli rispondevo: “Guarda, verrò. Non so quando, ma ti prometto che vengo”. E così, subito dopo l’estate, siamo andati insieme a Londra. È chiaro che tutti e due sapevamo che, quando io promettevo, voleva dire: “Quando non ci sarà più Margherita. Così, riprendi a fare qualcosa…”».

Negli anni sentivi crescere la fatica?
«Oh sì, e mi angosciava molto. La fatica fisica negli ultimi tempi per me era diventata proprio pesantissima. E su quello non ci puoi fare tanto. Ho anche cominciato ad avere un problema di artrite reumatoide, per cui avevo male a un gomito, poi ho avuto male alla spalla, alla mano… e con lei non è che potessi dire “ah, oggi, aspetta, non ti lavo e non ti vesto e non ti cambio e non ti sollevo, ho male a una mano”. E però capisci anche che i tuoi limiti stanno diventando un problema per entrambe.
Adesso i mali sono passati, non faccio più alcuna fatica, perché faccio quello che voglio, e oggi capisco che avevo bisogno di non aver più quella fatica lì a una certa età. Io sono stata una madre abbastanza giovane, avevo venticinque anni quando è nata Margherita, ma a cinquanta… Comunque avevo capito che non ce la facevo più da sola, e nell’ultimo anno di vita di Margherita, ho preso una persona che mi aiutasse nel quotidiano. Anche se si fa molta fatica a delegare, perché anche per lei, per Margherita, era importantissimo che lo facessi io. Infatti, non mi sono mai fatta sostituire, mi facevo solo affiancare. Lasciare la cosa in mano d’altri non mi era possibile. Almeno negli ultimi due anni. Gli stessi infermieri del domiciliare delegavano a me alcune cose, alcune manovre, alcune operazioni. Ho firmato una cartella clinica, dove dicevo che avrei fatto io le medicazioni e sono manovre abbastanza complicate, bisogna essere precisi, per il CVC [catetere venoso centrale, N.d.R.] bisogna fare tutto con guanti sterili…».

Perché aveva un sondino?
«Perché aveva sia la PEG [gastrostomia endoscopica percutanea, N.d.R.]che il CVC. Prima la PEG, che è un sondino che va direttamente nello stomaco, che però non ha mai funzionato, le ha dato grandissimi disturbi, per cui, poi, siamo passati al CVC, che è la nutrizione parenterale, via vena. Poi, per i problemi alla schiena, s’era prodotta una lacerazione in una piega dove la pelle si macerava; e ancora, ha dovuto fare una seconda bonifica della bocca perché aveva un bruxismo quasi continuo (cioè digrignava i denti), che le aveva provocato vari problemi e un’osteite dei mandibolari. Poi le hanno tolto e sostituito il primo CVC perché c’era un’infezione che non guariva. Le hanno messo temporaneamente un catetere nel collo, quindi il secondo CVC che una sera si è bloccato e io con l’eparina non riuscivo a sbloccarlo, per cui via al Pronto Soccorso, poi, poi, potrei continuare… insomma un sacco di guai collaterali».

Tempo addietro avevi pronunciato una frase molto ferma: «Io non posso neanche immaginare che lei mi sopravviva». Alla fine si può dire che è un bene che sia finita così?
«Sì, sì, sì, sì, sì, sì…».

Lei stava peggiorando…
«Stava diventando una cosa straziante… Io, rispetto agli ultimi due anni, quelli della PEG e del CVC, mi chiedevo: “Va fatto?”, “Non va fatto?”. “Che senso ha rispetto alla qualità della sua vita?”. Posso dire due cose: una è che le abbiamo dato due anni brutti, però – anche forse per darmi una sorta di consolazione o per non colpevolizzarmi troppo – mi dico che ne avevamo bisogno. Almeno io, per riuscire a “farla andare”. Non sei mai pronta a veder morire un figlio, e due anni fa io non ero pronta proprio per niente. Ripeto, non si è mai pronti, ma diciamo che lì io sarei comunque rimasta con un dubbio atroce. Quando è successo, due anni dopo, i dubbi non li avevo più. E l’ho lasciata andare, proprio in maniera precisa, ho fatto una scelta che voleva dire che Margherita moriva. Margherita è morta in casa. Ma non devi avere dubbi. E per non avere dubbi devi aver passato un certo processo per arrivare a dire: “Basta, adesso la si lascia stare”. Io prima non avrei potuto fare questa cosa. Ora, rispetto a quando l’ho deciso, non ho nessun pentimento. Questo è molto importante. Capire se e quando diventa accanimento. Perché da lì, davvero, sarebbe stato accanimento terapeutico».

Eri sicurissima.
«Sì, ormai era una cosa talmente inequivocabile, talmente ineluttabile, che non si poteva avere alcun dubbio. Era solo questione di tempi e di modi, non di sostanza di quello che doveva succedere, che era ormai fatale. Però, lo ripeto, col senno di poi, è molto importante non avere dei rimorsi, perché sarebbe terribile. Certo, mi chiedo: “Bisognava farlo prima?”. Alla fine penso che lo fai quando puoi, quando te la senti… E del resto, quando è stata messa la PEG, non so neanche se sarebbe stato possibile non mettergliela, dubito…».

Perché te l’avrebbero impedito i medici? Ti avrebbero tolto Margherita?
«Durante il ricovero per la PEG, quando le avevano già messo il sondino nasogastrico, io feci due cose. Intanto parlai con il medico che mi sembrava più sensibile come persona, proprio sul piano umano, non era un neurologo, ma un fisiatra. Gli feci delle domande precise, dicendogli anche che non volevo che Margherita diventasse una persona “piena di tubi”. E lui, capendo bene di cosa stavo parlando, mi disse: “Ma no, guardi che con una nutrizione enterale, cioè direttamente nello stomaco, si può vivere bene, avere una qualità della vita…”. Insomma, mi rincuorò un poco. Poi parlai con un altro medico neurologo, una donna che mi sembrava la più adatta a questo discorso, e le chiesi quale fosse l’orientamento dell’équipe medica, se di tipo più interventista o meno. “Per informarmi. Lei ha capito…”, “Sì, sì, ho capito, direi interventista”».

Comunque, si sarebbe creato un conflitto…
«L’ho fatto altre volte, in situazioni difficili, di firmare il foglio di dimissioni e portar via Margherita. A volte anche concordandolo, di fatto, col medico, che ti diceva: “Guardi, io non sono nella situazione di firmare una dimissione, però, detto fra noi, se fossi in lei, tutto sommato, per quello che comporterebbe di disagio per Margherita…”. Ti fan capire che se firmi tu è un bene per la bambina. Ma ne ho firmate anche non concordandole, lì dipende anche molto da chi hai di fronte. Nei medici c’è di tutto e c’è anche chi non capisce proprio la situazione, non capiscono il paziente. Non solo le esigenze, ma proprio le patologie, i sintomi… E tu capisci che non capiscono. Ti guardano come per dire: “Ma cosa vuoi da me?”. Siccome Margherita aveva problemi gravi alla schiena, mi avevano sempre detto che, prima o poi ci sarebbero stati dei problemi respiratori. Quelli non ci sono stati, ma ci sono stati dei problemi all’apparato digerente. Tanto per dire come, a volte, le prognosi siano opinabili.
Però, appunto, poi ti chiedi: in un complesso già così difficile, se il digerente si ferma, ci sarà da chiedersi perché. La natura avrà un suo senso? Quando una delle funzioni vitali, il respiro o il cuore o il digerente si ferma, vorrà dir qualcosa. Vorrà dire che la coperta è diventata troppo corta? Anche perché nessuno sa dirti perché le sia venuta questa atonia gastrica, i farmaci, la schiena, il suo complesso, chissà perché. Ma forse perché, semplicemente, pian piano, pian piano, pian piano, succede che “non ce n’è più”. Forse se una persona non riesce più a nutrirsi, vuol dire che non ne ha più.
Comunque, negli ultimi due anni, non è che sia stata un’allettata sempre, non era un “vegetale in un letto”, assolutamente. Ha anche rifrequentato il centro dove andava e, insomma, riusciva a stare ancora benino. Era la PEG a farla soffrire molto. La PEG è stata messa per un problema di disfagia, che vuol dire che non deglutiva più. In realtà, la disfagia non c’è mai stata. È che lei non voleva più mangiare e non voleva più deglutire perché lo stomaco non funzionava più. Per cui probabili dolori da dilatazione gastrica e ristagno gastrico, che vuol dire che la roba ti rimane nello stomaco per troppo tempo. Naturalmente, non potendolo dire. Sai, lei non poteva neanche dire: “C’ho male qui”. Poi, mentre prima almeno lei poteva girar la testa e sputare o non deglutire, dopo… Niente, non potendolo dire… lo si è capito in radiologia, facendo delle prove… Insomma, una volta che si è capito che questa PEG le aveva peggiorato la situazione, perché era lo stomaco a non funzionare, allora fai qualunque cosa, pur di evitarle tanto dolore. Poi incominciava ad essere proprio denutrita, per cui il passaggio al CVC l’ho accettato senza discutere, non mi sono neanche chiesta se fosse giusto. Purché lei non continuasse ad essere alimentata con la PEG, che la faceva star così male…

Visto che il problema della deglutizione non c’era, io dopo un po’ di tempo ho anche ricominciato a darle da mangiare e lei deglutiva benissimo e le piaceva rimangiare, poi, per impedire che stesse male – e questa è una cosa che me la sono proprio inventata – usavo la PEG non per immettere, come dovrebbe, ma per toglierle quello che aveva mangiato. Perché mi avevano insegnato a fare questa cosa che si chiama “ristagno gastrico”, che vuol dire che, con queste grandi siringhe, tu incominci ad estrarre e vedi quanto viene fuori, poi una piccola parte comunque la reimmetti… Sì, è complicato da spiegare. In questo modo, per un po’, ho potuto darle anche solo quello che le piaceva. Tanto la nutrizione vera avveniva via vena la notte (tutta la notte, tutte le notti). Però, poi, ho dovuto smettere perché, probabilmente, anche quel poco che comunque rimaneva, rimetteva in moto il processo digestivo e lei tornava a star male».

Ma il CVC cos’è?
«CVC vuol dire catetere venoso centrale. È una nutrizione che bypassa completamente il digerente, arrivando a una vena centrale».

Adesso sono quasi due anni che è successo. La tua vita quotidiana si è assestata?
«Sì, fra un mese sono due anni. La mia vita quotidiana? La prima cosa che mi viene da dire è che è una “vita comoda”. Ma probabilmente perché prima avevo una vita molto scomoda. Sì, avevo degli arretrati tali per cui posso concedermi un po’ di comodità senza dovermi colpevolizzare. Sono abbastanza cambiata: sono diventata un po’ pigra, ma non mi ci ritrovo moltissimo, anche perché, alle volte, è una pigrizia che sconfina nell’indolenza. Prima, anche per un cinema, era un tempo sempre conquistato, se avevo due ore, cercavo, a viva forza, di farci stare un cinema. E tutto doveva essere organizzato al minuto. Adesso mi dico: “Quasi quasi oggi pomeriggio potrei andare al cinema”, poi: “Casomai vado allo spettacolo prossimo”, per finire che non ci vado proprio. La consuetudine a rimandare non sapevo che cosa fosse, adesso è arrivata.
Come dicevo, sono libera e lo apprezzo, ma è un cambiamento grande, non c’ero più abituata da venticinque anni. Già coi figli ti cambia abbastanza tutto, però con una figlia come Margherita… È come se staccassi una certa spina a venticinque anni e la riattaccassi a cinquantadue e ogni tanto ti dici: “Ah, ho potuto riattaccare quella spina”… Sì, ho ritrovato una routine; alla Moretti potrei dire: “Faccio cose, vedo gente”…».

Il fatto di avere Federico, penso sia stato decisivo…
«Non so come facciano quelli col figlio unico! No! Non ci posso pensare. Per un sacco di versi. Anche perché se hai un figlio handicappato, comunque ti colpevolizzi. Comunque! Leggevo che perfino i genitori di un figlio Down – dove non è certo “colpa tua” se un cromosoma è anomalo – si colpevolizzano, perché comunque quello l’hanno fatto loro. Figuriamoci nel mio caso, che non si è mai saputo perché Margherita fosse così, nessuno ha mai capito cosa fosse successo… Ma se tu hai almeno fatto anche una cosina fatta bene, che cresce, che va, che parla, che sa e che corre, il tuo amore un poco vien compensato…».

Non avevo mai pensato a questo aspetto…
«Eh, no, invece c’è molto, credimi. Poi l’altro figlio paga un prezzo, proprio perché deve compensarmi di quella roba lì… Ecco, una cosa della quale sono stata molto contenta, anche dopo, ripensandoci negli anni, è che quando è nato Federico, io non sapevo ancora che Margherita era malata. Per cui la gravidanza, il parto e tutto l’allattamento, il primo anno di vita di Federico, non l’ho pensato e programmato come compensazione.
Penso che questo sia stato abbastanza importante, che lei si sia ammalata quando lui era già bello che svezzato. Almeno quel tempo lì gliel’abbiam dato. Poi, certo, Federico sicuramente è stato investito di un’aspettativa, tu lo vedi come il “dio in terra”, perché lui fa, perché lui corre. Diventa la luce dei tuoi occhi perché è lui a impedirti di andare con tutti e due i piedi dentro all’handicap o alla malattia… Sì, Federico è stato molto importante. Mi chiedo cosa sia se un figlio malato è figlio unico o se ti muore il figlio unico… Io non so come si possa andare avanti…

Poi hai il problema di salvaguardare il figlio “normale”, perché non può non esserci dentro anche lui, nella situazione. Io spero di averlo abbastanza salvaguardato. Almeno ho fatto il possibile. Perché c’erano delle priorità assolute con lei e su quelle non si discuteva, ma nello spazio che rimaneva, ho cercato che ci fosse uno spazio esclusivo per lui. Alle elementari, per esempio, lei era inserita in un tempo pieno, e per lui ho fatto apposta la scelta del tempo normale, che lui chiamava il “tempo vuoto” perché quello “pieno” era quello della sorella. Per dire, li ho messi in due materne diverse anche se avevano solo un anno di differenza, che non era comodo, e così anche le elementari, diverse, ma quello è dipeso pure dal fatto che lei è stata messa d’ufficio in una scuola lontana e lui in quella secondo lo stradario. Ma poi, anche solo per farlo andare a sciare, non potevo andarci io, allora andava con un gruppo, con un pulmino, e mi ricordo che quelle domeniche, di mattina molto presto, io prendevo lei in pigiama, le mettevo le scarpe, la sciarpa, il cappotto e il berretto, la caricavo in macchina, come un “pacchetto”, e portavamo Federico a questo parcheggio; poi ritornavamo a casa e tutte e due ritornavamo a letto. Insomma, ho fatto fare qualche sacrificio anche a lei per poter favorire lui. Poi, finché erano abbastanza piccoli, mia madre era ancora in forma e mi ha abbastanza aiutata nel tenermi la Margherita nei momenti in cui aveva bisogno Federico…».

Tua madre?
«Sette mesi prima che morisse la Margherita è morta mia madre. Già, perché nel frattempo a te succedono le cose che succedono a tutti, perché non è che non ti muore tuo padre, non è che non ti muore tua madre… Sì, a luglio è morta mia mamma e a febbraio è morta la Margherita. E mia madre ha fatto molta fatica anche lei a morire. “Morire bene” o “morire male”, non so se si può dire. Mio padre è morto bene! Mia madre male! È stata malissimo quando già anche la Margherita stava molto male.
In un periodo così, tutte le volte che leggi articoli sul testamento biologico ci pensi; adesso non ricordo esattamente se erano i tempi di Eluana Englaro, però, tutte le volte che c’era una storia di questo genere, che ti richiama al problema del fine vita, c’era un coinvolgimento e anche un pathos grande sul che fare, su cosa sia meglio. Non servirà comunque, ma ho fatto un testamento biologico e Federico sa dov’è…».

Quindi?
«C’è un grande vuoto. C’è un qualcosa di intangibile che ti manca e forse è proprio la fisicità. A volte mi dico che non ricordo più com’è la sensazione di toccare la sua pelle. E dire che delle notti dormivamo tenendoci per mano. Io cercavo le sue gambe…
Gli ultimi dodici anni della sua vita, dai quattordici ai quasi ventisei, ha dormito con me. Era nata come esigenza, ma a me piaceva. Ecco, cercare la mano, cercare le gambe, quello mi manca, sai? Mi manca molto la sua mano, Margherita aveva una pelle bellissima. Anche nel viso aveva una pelle bellissima. Era bellina».

Quando ho visto la foto, io son rimasto…
«Era particolarmente bellina. In quello era stata fortunata. Perché alcuni portano “l’handicap scritto in faccia”. Lei no. Per niente. C’è una frase, te la devo andare a prendere, di una poesia che Federico mi ha incorniciato, ce l’ho sopra il comodino… Si chiama Forse: “Ricordare è forse il modo più tormentoso di dimenticare o forse il modo più gradevole di lenire questo tormento”. È stato un po’ così. È un po’ così. C’è un po’ questa cosa che non riesci più tanto a ricordare. Che vuol dire che stai dimenticando, probabilmente deve succedere, e per fortuna che succede, ma è anche un dispiacere. D’altra parte è una persona che non c’è più, non c’è più. È così.
Una volta, una dottoressa molto brava del Maggiore [l’Ospedale Maggiore di Bologna, N.d.R.], che ci ha molto aiutato, aveva cominciato a raccogliere delle testimonianze di madri e mi chiese di scrivere qualcosa della mia esperienza con una figlia disabile. Allora scrissi che io ero sì madre di Margherita, ma che non potevo prescindere dall’essere madre anche di Federico, e dicevo che mentre l’amore per un figlio che cresce è l’amore per qualcuno che cambia, che diventa indipendente, qualcuno a cui devi dare autonomia, con la Margherita, rimane quell’amore viscerale che si ha per i piccolissimi, che dipendono da te in tutto. Ed è un amore grande. Chi ha avuto bimbi piccoli lo capisce, è proprio una cosa fisica… Sono cucciolini che devi continuare a proteggere e ad accudire, a provvedere a loro in tutto, anche quando piccoli non lo sono più. Ma li ami tanto. Io l’ho amata tanto Margherita. E allora, per un verso, proprio se hai amato tanto, ti manca di più. Ma perché l’hai amata tanto, è come se ti aiutasse a fartene di più una ragione. Sembra non avere un senso, invece è un po’ così. Siccome l’ho amata tanto, mi ha anche aiutato, in qualche modo, quando non c’è stata più. Non so se si può capire questa cosa. È un po’ come se ci fossimo “lasciate in pace”. Non nel senso di non darci più fastidio, ma nel senso di esserci salutate in una situazione di pace. E questo, rispetto a un addio, per me è molto importante. Sapere che l’ho amata tanto mi aiuta…».

Fonte: Superando.it

25/02/2013