Come si spiega il “boom” delle diagnosi di autismo?

Come si spiega il “boom” delle diagnosi di autismo?

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Nei giorni scorsi in una nota di agenzia abbiamo potuto leggere che le diagnosi di autismo negli Usa sono cresciute di tre volte in 10 anni. In essa si chiariva però che tale aumento è dovuto a un cambio di nome, per cui molti bambini che avrebbero ricevuto una diagnosi di Disturbi cognitivi l’hanno avuta invece di Autismo. Ad affermarlo è stato uno studio pubblicato dall’American Journal of Medical Genetics. Sono stati analizzati i dati delle richieste di insegnanti di sostegno e si è riscontrato che il loro numero è rimasto invariato: le richieste di docenti per situazioni in cui si era in presenza di autismo sono aumentate di tre volte, ma, contemporaneamente, sono diminuite quelle relative alle disabilità intellettive.

Anche un articolo del Corriere della Sera di qualche mese fa sottolineava come ultimi anni si sia assistito ad un incremento delle diagnosi di autismo, spiegando però che vi sono diversi i criteri da tenere in considerazione per una diagnosi corretta.

La diagnosi di autismo viene solitamente formulata facendo riferimento alle due principali classificazioni internazionali dei disturbi mentali: il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Dsm) e l’International Classification of Diseases (Icd). Fino alla penultima edizione del Dsm le due classificazioni coincidevano sostanzialmente nei criteri diagnostici per l’autismo, mentre con il Dms-V (2013) sono stati introdotti numerosi cambiamenti. Oggi, dunque, criteri diagnostici per l’autismo si differenziano in maniera consistente rispetto a quelli dell’ultima versione: i parametri che devono coesistere affinché possa esserci una diagnosi di autismo sono due: deficit persistente della comunicazione e dell’interazione sociale e interessi ristretti.

Qual è poi l’età adeguata per avere una diagnosi? Prima si diceva entro i primi tre anni di vita, oggi si parla di prima infanzia. Questo perché molti genitori raccontano di uno sviluppo che inizialmente sembrava "normale", sino ad arrivare ad un vero e proprio black out.

Significative sono dunque le iniziative a supporto delle famiglie e degli educatori per il riconoscimento dei primi campanelli d’allarme, come il corso di formazione che è stato organizzato a Roma per gli educatori del nido. Ad essi sono stati forniti strumenti utili a individuare nei bambini da zero a tre anni i primi segni del disturbo, attraverso un percorso formativo seguito da neuropsichiatri, pediatri e da personale dell’Istituto Superiore di Sanità. Il giornalista G. Nicoletti, padre di un ragazzo con autismo, sottolinea la centralità della diagnosi precoce e l’importanza dell’utilizzo di una semplice M-CHAT, consistente in una ventina di domande da sottoporre ai genitori: in base alle loro risposte si può capire se il bambino debba essere visto da un neuropsichiatra perché potrebbe essere autistico.

Ben venga dunque questo strumento, insieme ad altri che possano portare ad una diagnosi precoce. Appare infatti certo che per i bambini con autismo sia fondamentale iniziare quanto prima una terapia, soprattutto di tipo cognitivo-comportamentale, che può portare a significativi miglioramenti, nella socialità, nel rispetto delle regole, nella partecipazione ecc.

Molto importante, inoltre, è il lavoro inclusivo che dev’essere fatto a scuola, con professionisti adeguati e formati. Rimane il problema del dopo, soprattutto nelle situazioni a basso funzionamento, come anche quello del dopo di noi, che desta enormi preoccupazioni nelle famiglie, rispetto a cui, finalmente si è giunti alla discussione di un testo normativo.

Fonte: Disabili.com

10/08/2015