Ovvero quelli che dal 1986 sono i Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche e non un “oscuro acronimo”, come probabilmente credono gli amministratori della stragrande maggioranza degli Enti Locali italiani, che a venticinque anni da quando avrebbero dovuto farlo – per obbligo di legge – non li hanno ancora adottati. Anche i Cittadini, però – e in particolare proprio quelli con disabilità – possono e devono fare la propria parte, per tentare di smuovere una situazione quasi grottesca, verificando innanzitutto se quel Piano esiste e successivamente intentando eventuali azioni legali nei confronti di chi non ha provveduto, per “omissione d’atti d’ufficio”
Dapprima – era l’ormai lontano 1986 – venne la Legge 41/86 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), ove all’articolo 32 (comma 21 e comma 22), si scriveva: «21. Per gli edifici pubblici già esistenti non ancora adeguati alle prescrizioni del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, numero 384, dovranno essere adottati da parte delle Amministrazioni competenti piani di eliminazione delle barriere architettoniche entro un anno dalla entrata in vigore della presente legge. 22. Per gli interventi di competenza dei comuni e delle province, trascorso il termine previsto dal precedente comma 21, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano nominano un commissario per l’adozione dei piani di eliminazione delle barriere architettoniche presso ciascuna amministrazione».
Noti ai più come PEBA, i Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche avrebbero dunque essere adottati entro il 28 febbraio 1987 (a un anno appunto dall’entrata in vigore di quella Legge), dai Comuni e dalle Province, pena un “commissariamento ad hoc” da parte delle Regioni.
Qualche anno dopo, la Legge Quadro 104/92 sulla disabilità ampliò la materia di competenza, con l’articolo 24 (comma 9), che stabiliva come «i piani di cui all’articolo 32, comma 21, della legge n. 41 del 1986» dovessero essere «modificati con integrazioni relative all’accessibilità degli spazi urbani, con particolare riferimento all’individuazione e alla realizzazione di percorsi accessibili, all’installazione di semafori acustici per non vedenti, alla rimozione della segnaletica installata in modo da ostacolare la circolazione delle persone handicappate».
Ebbene, ad oggi, anno 2012, – per citare solo i dati relativi a una Regione come la Toscana, che in ambito legislativo e amministrativo non è certo tra le “ultime arrivate” – «solo il 18,87% dei Comuni toscani ha elaborato i cosiddetti PEBA (Piani per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche), obbligatori per legge, ma il 61% dichiara di avere destinato i proventi per la loro definizione. E tuttavia solo il 50% dei Comuni della Regione ha predisposto la cosiddetta “Mappa dell’accessibilità urbana”» (fonte: CRID, Centro Regionale Informazione e Documentazione della Toscana).
Più in generale – come segnala Gustavo Fraticelli, copresidente dell’Associazione Luca Coscioni – si può tranquillamente dire, dopo una rapida ricerca in internet, che «ben pochi Comuni italiani hanno adottato il PEBA. Guardando ad esempio ai capoluoghi di Regione, l’unico ad avere provveduto è stato quello di Venezia-Mestre e a tal proposito va ricordato anche come, nel 2003, la Giunta della Regione Veneto abbia emanato specifiche Linee Guide per la redazione dei Piani, ottimo modello di riferimento generale, comprendente anche le attività ricognitorie e di pianificazione che i Piani stessi comportano»
Come dunque non condividere quanto lo stesso Fraticelli ha scritto nei giorni scorsi, ovvero che «per la stragrande maggioranza dei soggetti obbligati ad adottare quei piani già dal febbraio del 1987, la parola PEBA è solo un oscuro acronimo, anziché uno strumento basilare per dare certezza prospettica ai diritti delle persone con disabilità»?
E come non sostenere la sua richiesta di «pretendere dai Sindaci di tutti gli 8.000 e più Comuni italiani la redazione di quei Piani, rispettando la Legge 41 del 1986», rivolgendosi in particolare «a quelle persone con disabilità che hanno funzioni istituzionali o anche di collaborazione nel settore “Disabilità” di molti Comuni Italiani»?
Condividiamo infine, senza riserva alcuna, la sua proposta concreta di un paio di semplici, ma incisive azioni, quali «l’accertamento della mancata o carente adozione del PEBA, tramite una formale richiesta di accesso agli atti del singolo, che una persona con disabilità, in quanto tale, ha la legittimazione a fare; un’azione legale nei confronti del Sindaco, da una parte, del Presidente della Regione dall’altra, per omissione di atti d’ufficio».
A tal proposito, vale anche la pena ricordare un paio di interessanti precedenti giurisprudenziali – di poco successivi all’emanazione della Legge 41/86 – ovvero due sentenze penali della Pretura di Firenze, la prima del 23 ottobre 1989 (Sentenza n. 2239), ove si affermava che «gli interessati della categoria dei portatori di “handicap” nel suo complesso all’eliminazione delle barriere architettoniche possono essere soddisfatti solo tramite l’adozione di piani organici degli interventi da effettuare e non per mezzo di interventi contingenti e disorganici», la seconda del 13 dicembre 1989, che ancor più esplicitamente riconobbe «l’omissione o rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 del Codice Penale e LS 28 febbraio 1986 n. 41 art. 32) per il Sindaco» che non aveva «varato ed approvato il Piano di abbattimento delle Barriere Architettoniche per i portatori di handicap negli edifici pubblici entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge n.41/86».
Insomma, quella dei PEBA sembra realmente essere un’altra storia “molto italiana”, dove una Legge dello Stato può essere tranquillamente ignorata dalla maggior parte di coloro che avrebbero dovuto applicarla già da più di venticinque anni (un quarto di secolo!). Anche i Cittadini, però – e in particolare proprio quelli con disabilità – possono e devono fare la propria parte, per tentare di smuovere questa situazione quasi grottesca.
Fonte: Superando.it
08/07/2014