Nessun servizio di accompagnamento e recupero dell’autonomia: il racconto del siciliano Francesco Sansone e la sua voglia di ricominciare a vivere. "Perché gli aspetti sociali e psicologici sono sottovalutati?"
PALERMO – Non vengono applicate le linee guida e i protocolli previsti e non ci sono associazioni o altre realtà che possano prevedere gruppi di accompagnamento e di mutuo aiuto per chi si trova nella fase delicata di recupero da un ictus. Sono le parole di Francesco Sansone che in una lettera sfoga tutta la sua amarezza nell’essersi trovato dopo l’ictus davanti al vuoto dei servizi previsti per la sua patologia. "Quello che chiedo – dice Francesco Sansone – è sicuramente una maggiore attenzione sia nella fase preventiva che diagnostica ma anche terapeutica-riabilitativa dopo la patologia ictale. In città esiste soltanto un’associazione che però non offre un supporto adeguato in termini di auto-mutuo aiuto per ascolto e attività ludico ricreative e riabilitative dove noi pazienti possiamo interagire positivamente. Siamo soli davanti al vuoto rimanendo soltanto con i nostri familiari che devono farsi carico di tutto".
"Era il 6 agosto del 2014, il giorno che cambiò per sempre la mia vita e quella dei miei cari – scrive nella lettera -. Una grande confusione mentale associata a un comportamento bizzarro e all’estrema debolezza del mio braccio sinistro: questi, i sintomi che non facevano presagire nulla di buono. Il ricovero in ospedale era dunque l’unica decisione da prendere. Mi accompagnarono al pronto soccorso del Policlinico dove mi assegnarono il codice giallo e non rosso come prescrivono le linee guida dell’assessorato alla sanità. La diagnosi che mi venne fatta fu di ‘sospetto ictus’. Da lì venni trasferito al reparto di neurologia dello stesso ospedale individuato dalle linee guida assessoriali come stroke unit di II livello". "Da quel momento i ricordi divennero confusi – continua la lettera -, seppure alcuni momenti, forse i più dolorosi, rimasero lucidi e chiari, come, ad esempio, l’inutile tentativo di alzarmi durante la notte per andare in bagno o il pianto inconsolabile della mia compagna, quando al mattino, vide completamente immobilizzata la parte sinistra del mio corpo. La notte la trascorsi senza un’adeguata assistenza infermieristica, perché la stanza nella quale ero stato ricoverato – ci disse il medico – era riservata ai pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica e dunque ad esclusiva gestione familiare. Avevo avuto un ictus, quella terribile ombra nel cervello che oscura per sempre parte della vita di un essere umano, eppure benché l’iniziale sospetto scritto nella diagnosi del pronto soccorso, non sono stato sottoposto al ricovero in neurologia ad accertamenti ulteriori ( come prescritto dalle linee guida regionali) oltre la tac basale richiestami dal pronto soccorso, che potessero meglio orientare per una eventuale terapia trombolitica visto che sono giunto in ospedale entro le 3 ore dall’evento acuto".
"In seguito, ricordo il susseguirsi di vari ricoveri, come quello al reparto di neuro-abilitazione dell’ospedale San Camillo di Venezia (altro paradosso: il sistema sanitario siciliano prevede il ricovero fuori la propria regione, mentre contempla soltanto due mesi di degenza negli ospedali siciliani…I costi di un ricovero fuori non sono molto più onerosi?) -. Ritornato a Palermo ho scelto una terapia di day hospital presso il Buccheri La Ferla, di cui ringrazio gli operatori per l’impegno e la professionalità ma l’assistenza sanitaria prevede soltanto 18 accessi in day-hospital e circa 20 accessi in regime ambulatoriale, non sufficienti per il percorso riabilitativo di un paziente ictato".
Nella missiva emerge chiaramente tutta la sua voglia di ricominciare a camminare, a rivivere se ci fossero realtà preposte ad accompagnarlo. "Siamo in agosto, avrei voglia di uscire e andare in piscina o al mare, ma le barriere architettoniche e la mancanza di strutture ricreative idonee per malati come me, mi costringono ancora di più ad un isolamento devastante – si legge ancora nella lettera – ; ho soltanto 62 anni e mi chiedo se, oltre la malattia a togliermi a tratti la voglia di sperare non sia anche la precarietà sanitaria, sociale e la solitudine nella quale sono costretto a vivere; infatti la carenza di gruppi di confronto o di auto-mutuo-aiuto, la difficoltà a confrontarmi con chi come me vive tali difficoltà mi costringe spesso ad uno stato di alienazione. Perchè le strutture sanitarie sono sempre più medicalizzate? Perchè gli aspetti sociali e psicologici sono sottovalutati? Perchè e così difficile mettersi nei panni di un paziente? Un paziente ha senz’altro bisogno di medici preparati e coscienziosi ma ha anche bisogno di credere di potere essere ancora parte attiva della società".
Fonte: Superabile.it
21/09/2015