Home Care premium, prorogato fino al 31 marzo il termine per presentare le domande

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La settimana scorsa mentre navigavo sulla rete sono incappata nel titolo di un articolo che annunciava la scoperta di un legame fra autismo e circoncisione. Non sono riuscita a trattenermi. Sono sbottata a ridere.

Nel corso degli anni ho letto, e non in quest’ordine, le seguenti spiegazioni all’autismo:

L’autismo è causato dal mercurio.

L’autismo è causato dal piombo.

L’autismo comincia con un debole legame materno.

Alcuni pesticidi potrebbero scatenare l’autismo.

La plastica.

Il glutine acutizza i disturbi dello spettro autistico.

Gli autistici dovrebbero mangiare più fragole.

Tutti questi scarichi delle automobili sono una delle cause principali dell’autismo.

Le sostanze chimiche presenti sugli strumenti da cucina anti-aderenti potrebbero scatenare l’autismo.

La spiegazione che parla del legame materno mi risulta piuttosto dolorosa. Ma la verità è che in effetti quand’era un bebè legare con Jack mi è risultato difficile. Il piccoletto non ha fatto altro che strillare, lamentarsi e piangere per un anno intero. Ha iniziato a dormire di notte a sei settimane, e ha smesso a tre mesi.

ro esausta, Joe e io trascorrevamo tutto il tempo a scontrarci; discutevamo, litigavamo e facevamo lunghe gare a chi strillava di più. Per la prima volta sentivo che il mio matrimonio mi stava scivolando fra le dita, come fosse sabbia.

All’epoca il mio primo figlio, Joey — il mio dolce Joey, senza troppe complicazioni e dalla natura tanto buona — aveva solo un anno. E proprio quel suo animo pacifico rendeva ancor più evidente l’irritabilità del nuovo fratellino.

Tuttavia sono certa che sulla terra oggi non esista nessuno che sia più legato di me a mio figlio Jack, ma ciononostante, indovinate un po’? L’autismo lui ce l’ha ancora.

Sono lieta di poter annunciare che ormai so che cos’abbia causato l’autismo di Jack, e senza ulteriori indugi gradirei potervelo svelare.

Pronti?

Non è roba da niente.

Rullo di tamburi, please.

Jack è autistico perché, come dice suo fratello maggiore Henry a cinque anni, ci è natt-to.

Sì, sono convinta che l’autismo sia una malattia genetica. Sono convinta che per qualche ragione il DNA di Joe si sia mischiato col mio, e ci siamo ritrovati con un bambino che pensa che il mercoledì sia di color arancio. Magari il suo codice genetico lo rende più sensibile ad alcuni elementi presenti nel nostro ambiente, come il piombo, il mercurio e la plastica

Ma di quella cosa delle fragole non sono particolarmente convinta.

(Per anni ho dato la colpa del gene dell’autismo al lato della famiglia di Joe. Ma qualche anno fa sono andata al funerale di un mio parente, mi guardavo intorno, e fra me e me dicevo: hmmmmm).

La settimana scorsa ero in un caffè, quando una donna mi viene vicino e si presenta. Mi dice che sua figlia, Lily, va nella stessa classe di Jack, in quinta. Annuisco, le sorrido, prendo dalla cassa la mia tazza di caffè — OK, OK, e il mio cupcake –, e faccio per andarmene.

"Aspetta", mi tocca il braccio. "Volevo solo dirti una cosa. Lily m’ha detto che l’altro giorno in classe un bambino ha dato a Jack dello strano".

Mi sfugge una smorfia. "Oh beh, sì. Succede".

"Lily m’ha detto di aver risposto a quel bambino che Jack non è strano. Gli ha detto che va bene esattamente così com’è".

Capite qual è il mio dilemma? Se cominciassi ad andare in giro sostenendo che l’autismo è un’epidemia, gridando che dobbiamo scoprire da chi e da dove viene, e come curarlo, beh, questo non farebbe che contraddire tutto quel parlare d’accoglienza, tolleranza e apertura mentale.

E questa fragilissima casa di vetro che ci siamo affaticati a costruire nel corso dell’ultimo decennio esploderebbe in migliaia di schegge.

D’altronde però, in effetti in un certo senso un’epidemia lo è. Altre famiglie faranno dei figli, e magari a loro piacerebbe avere un’idea su come prevenire la comparsa di questo complicatissimo disturbo. Un giorno i miei figli faranno a loro volta dei figli, e se a causare l’autismo fossero effettivamente gli scarichi delle automobili sarebbe bello saperlo, così tutti potremmo comprare delle auto elettriche.

D’altronde però non vorrei che concentrandomi troppo sul cosa, sul quando, sul dove e sul come, finissi col dimenticarmi del ‘chi’.

Perché non m’importa da dove provenga.

Ma sarei piuttosto curiosa.

Non m’importa di capire il perché Jack sia autistico.

Ma sarebbe bello poterlo sapere.

In lui non c’è niente che non vada.

O forse qualcosa che non va in effetti c’è, perché ha trascorso gli ultimi tre quarti d’ora a disquisire su tutti i diversi tipi di gomme da masticare in vendita da Walmart.

Anche se potessi, non cambierei una virgola.

Qualcosa forse la cambierei.

Celebro l’autismo e tutti quei suoi mirabolanti risvolti.

Odio l’autismo perché fa sì che mio figlio trascorra tutto questo tempo a parlare di gomme da masticare da Walmart.

È guasto.

È sano.

L’autismo non è colpa di nessuno.

Forse dovrei smettere d’adoperare i contenitori in Tupperware e dargli da mangiare delle fragole, anche se non le sopporta, e ritinteggiare casa per accertarmi che non ci sia piombo sui muri o i davanzali.

Forse dovrei buttare il nostro padellino per friggere.

Forse avrei dovuto volergli più bene, più intensamente, quand’era un fagottino che mi si agitava fra le braccia.

Forse è stata colpa mia.

Come potete vedere ciò che provo riguardo all’autismo di Jack è complicato come un prisma dai mille colori, angoli e riflessi. Ci sono giorni in cui i miei dubbi non sono che flebili sussurri nel mio cuore; e altri in cui pare che qualcuno mi strilli nell’orecchio.

Non sono uno scienziato. Non sono abbastanza intelligente per esserlo. Ma sono una madre. E anche se in realtà non sono abbastanza intelligente neanche per quello, da quel punto di vista l’autismo lo conosco bene. Conosco che cosa ti provochi dover avere a scuola un insegnante di sostegno: la rigidità, l’ossessività e la rabbia. Conosco la delusione e la paura. Conosco quella malinconia silente che nasce dal sentirsi diversi o strani, perché la vedo ogni giorno che passa.

Quando vivi con un autistico ti capita spesso di dire "per ora".

Per ora, la radio è sintonizzata sul canale giusto.

Per ora, non urla.

Per ora, dorme.

Per ora, è al sicuro.

Ragion per cui, per ora, continuerà a credere che le ragioni dell’autismo di Jack si trovino nel DNA, nell’RNA e nell’ereditarietà.

Per ora, proverò a dare una mano di verde, di blu, di viola e d’arancione alle pennellate in bianco e nero della scienza. Insieme continueremo a dipingere la tela dell’autismo finché la sua immagine non si sarà fatta più nitida.

Non so esattamente che cosa raffiguri quel quadro, ma mi piace pensare a una specie d’utopia: il perfetto punto d’incontro fra scienza e persone. Ci sono fragole, cuccioli e tante gomme alla menta di Walmart, di quelle che si trovano nei contenitori blu.

Ci sono bambine alte e bionde di nome Lily, e bambini cogli occhiali di nome Jack.

E se guardi bene, in lontananza vedi una casa di vetro — quasi all’orizzonte. Riluce riflettendo i raggi del sole, roba da mozzare il fiato.

Se guardi ancora meglio vedrai una frase incisa sulla porta d’ingresso. Questa frase — quest’insieme di sette parole — è scritta a grandi, grandi lettere.

Si stagliano contro una marea d’incertezza.

Sono un milione di stelle brillanti in quella che altrimenti sarebbe una notte lunga e buia.

Sono pace e perdono, forza e orgoglio. Sono un’assoluzione perpetua.

La prima volta che le ho sentite pronunciare ero in un caffè a comprarmi un cupcake.

"Lui va bene esattamente così com’è".

Fonte: Huffington Post

09/02/2015