Presentiamo oggi un’intervista esclusiva con il regista Abdullah Al Atrash, autore del documentario "La stanza di Hamdan", già da noi recensito qualche giorno fa, a proposito della condizione in cui versano le persone con disabilità in Palestina. Secondo Al Atrash, avere una disabilità in quel Paese significa subire un disagio triplicato rispetto a quello che si potrebbe subire altrove. L’occupazione militare da parte dell’esercito israeliano e la cultura tribale palestinese amplificano infatti le difficoltà che la condizione oggettiva di limitazione fisica o mentale provoca in sé.
Abbiamo già raccontato ai nostri Lettori la situazione in cui versano le persone con disabilità in Palestina, sia grazie al contributo di Mirko Tricoli, operatore di Terres des Hommes, fondazione specializzata nella protezione dei bambini e nell’adozione a distanza, sia tramite la nostra lunga intervista esclusiva ad Hamdan Jewe’i, giovane palestinese impegnato a sensibilizzare l’Occidente sulla condizione delle persone con disabilità nel proprio Paese. Riprendiamo ora l’argomento insieme al regista Abdullah Al Atrash, che a questo proposito ha realizzato un documentario di diciannove minuti nel quale intervista sei cittadini palestinesi con disabilità e, tra gli altri, c’è proprio Hamdan Jewe’i: il titolo del video, Ghorfat Hamdan ("La stanza di Hamdan"), è ispirato a lui.
Abdullah non è un regista di professione e nel corso del 2011 ha assunto questo ruolo per poter diffondere delle informazioni che secondo lui sono delicate e importanti e che lo toccano da vicino. Trentatreenne, nato in Italia da madre marchigiana e padre siriano, sposato con una donna italiana e padre di due bimbi, vive e lavora tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Italia, commerciando vernici in Medio Oriente e in Europa. Insieme alla moglie, da quindici anni svolge attività di volontariato tra le persone con disabilità in Italia, in Palestina e negli Emirati Arabi, tanto da avere organizzato più volte alcuni gemellaggi tra realtà così diverse.
Telecamera compatta, nessuna attrezzatura di supporto, nessuna conoscenza specifica del linguaggio cinematografico o delle tecniche di ripresa, Abdullah si è tuffato in questa avventura e ha realizzato un prodotto efficace, una testimonianza preziosa di una situazione sociale difficile.
Ghorfat Hamdan raccoglie riprese girate in Palestina, Isreaele, Emirati Arabi e Italia. Oltre ad Hamdan Jewe’i, sono stati intervistati una donna non vedente, che abita in un campo profughi di Betlemme, alcuni ragazzi del più grande centro per persone con disabilità costruito nella Striscia di Gaza, alcuni atleti della squadra nazionale palestinese selezionata per gli Special Olympics e un ragazzo che per anni ha svolto attività di volontariato sia in Israele che in Palestina.
Come hai iniziato le tue attività di volontariato?
«Ho iniziato a diciannove anni, nelle Marche. Avevo voglia di fare qualcosa di buono nel tempo libero mentre ero studente e poi non ho più smesso. Attualmente faccio parte del GASPH (Gruppo di Animazione Spontanea con Portatori di Handicap), la cui sede è a Falconara Marittima, vicino Ancona. Svolgo inoltre attività di volontariato anche negli Emirati Arabi e in Palestina».
Com’è la situazione delle persone con disabilità in Palestina?
«Le ripercussioni negative che la condizione di disabilità ha sulla qualità della vita delle persone sono triplicate rispetto alla nostra realtà italiana. In Palestina, infatti, la condizione di disabilità in sé viene aggravata innanzitutto dall’occupazione militare: lì c’è un ambiente di guerra vero e proprio».
Questo cosa comporta?
«Comporta, innanzitutto, nuovi disabili a ogni scontro militare, persone che rimangono lese in modo anche permanente. In condizioni di guerra l’esercito israeliano a volte spara per uccidere, ma altre solo per ferire e questo crea spessissimo nuovi disabili. Sparano alle gambe. Oppure sparano proiettili di gomma sulla testa, che provocano lesioni permanenti. Ci sono anche tanti casi di para o tetraplegia per danni alla spina dorsale, perché i soldati picchiano alla schiena con il calcio del fucile. Durante i conflitti, poi, ovviamente, le persone con disabilità sono meno in grado delle altre di difendersi o proteggersi e quindi sono a maggior rischio. Inoltre, le urgenze mediche o la necessità di altro tipo di cure sono un vero e proprio "terno al lotto"».
In che senso?
«Nei territori occupati militarmente dagli israeliani, gli spostamenti avvengono a discrezione dei soldati. Quando gli abitanti escono di casa per andare a lavorare, non sanno mai se ciò avverrà effettivamente. Ci sono check-point ovunque. La guardia quel mattino li potrà far passare senza batter ciglio o al contrario potrà vietare loro il transito. Aspettano in piedi per ore».
Ma cosa succede se viene bloccato loro il passaggio?
«Tornano a casa, per quel giorno non lavorano e perdono il guadagno. Lo stesso accade per le persone con disabilità nel caso di emergenze ospedaliere: non è detto che il permesso venga loro concesso. E discorso analogo nel caso si prenoti una visita per la quale si è rimasti in attesa magari per mesi: può sempre capitare che quel giorno il passaggio venga impedito».
Dove si trovano i centri clinici di riferimento per i palestinesi?
«La Palestina è divisa in Cisgiordania e Striscia di Gaza. Se ti trovi nella seconda, che è sottile e piccolissima, e stai male, di solito cerchi di andare in Egitto o in Israele, ma non è detto che ti facciano passare. La Cisgiordania, invece, è più grande ed esistono più centri al suo interno, ma è piena di check-point perché è colonizzata e pertanto più di metà del Paese è abitato da coloni israeliani».
Dicevi che gli effetti della condizione di disabilità in Palestina sono triplicati. Per la disabilità in sé, per l’occupazione, e qual è il terzo fattore?
«La stretta della loro stessa società, che per certi versi è ancora peggio della guerra. La disabilità, infatti, viene percepita come una sorta di "vergogna sociale" ed è quindi qualcosa da nascondere. Le conseguenze di questa visione sono gravi a livello fisico e pratico, ma sono ancora peggio a livello emotivo e psicologico».
I familiari con disabilità vengono quindi tenuti nascosti in casa?
«Esatto. Non è sempre così e ci sono dei cambiamenti, ma accade spesso. I palestinesi fanno parte di una società tribale, con i matrimoni che sono il frutto di accordi tra gruppi familiari. Essendoci molta povertà, nessuno vuole legarsi a una famiglia in cui un componente abbia un qualche tipo di disabilitità, perché questo comporterà di sicuro ulteriori spese che non saranno in grado di affrontare. Per combinare matrimoni convenienti, molte famiglie, dunque, negano l’esistenza del familiare disabile, tenendolo rinchiuso in casa in modo che nessuno sappia della sua esistenza».
La società israeliana invece è molto più inclusiva.
«Sì, certo. È una società più avanzata di quella palestinese sia tecnicamente che culturalmente. E poi bisogna sempre ricordarsi di distinguere: l’occupazione è una scelta militare del governo e molti israeliani non sono d’accordo. Ce ne sono tanti, di pacifisti, che aiutano i palestinesi».
a cura di Barbara Pianca
Fonte: Superando.it
12/01/2012