Famiglia e disabilità nel nuovo romanzo di Valeria Parrella.
Una madre sospende sempre qualsiasi tipo di automatismo. Deve concedersi alla scoperta. Inoltrandosi in un mare aperto. Là, dove il senso, se appare, sguscia: prende altre forme. Ogni cosa va di nuovo compresa, bisogna armarsi di fronte alla paura quando assale con la sua abissale spietatezza quotidiana. Se il tempo non è mai abbastanza, e ce ne vorrà ancora, per dare una quadratura, e comprendere «dietro quale lettera della parola disabilità » il proprio figlio si sta nascondendo. Mentre si annodano i lacci delle scarpe, quando bisogna lavare i denti: mentre lei attende fuori lo studio dello psicomotricista e affrontare i gradini degli ospedali rinnova la fatica di Sisifo. Perché «sono come scale mobili prese all’incontrario». Così a quarant’anni, la madre, la protagonista del nuovo romanzo di Valeria Parrella, “Tempo di imparare” (Einaudi), mette sulle spalle lo zainetto, pronta a ritornare in prima elementare. «Lei non deve imparare niente del lessico medico — spiega la scrittrice — O imparare a lottare contro il sistema affinché vengano riconosciuti i diritti di suo figlio. Questo già lo fa. Deve imparare di nuovo dalle elementari, ripristinare i segni e il senso. È un processo di formazione della madre di fronte all’intoppo. Ripartendo dalle letterine, come la maiuscola “H”». E far germogliare una parola, handicap, quando la diagnosi del piccolo Arturo, asfissia alla nascita, rimbomba dalla cartella clinica. Quando nulla ha la forma di come lo si voleva che fosse. Romanzo di formazione di una madre, in verticale: discesa nei suoi pensieri, dove «la sofferenza si annida nella bellezza», quando si fanno foschi assistendo al passo incerto di suo figlio che ridisegna il mondo in cui muoversi. «Distinguendo, però, la differenza tra disabilità, che è soggettiva, e handicap, condizione universale — continua la Parrella — Disabilità può essere anche il mondo di limitazioni dopo un ictus, essere mancini, nascere con delle difficoltà che non ti rendono abilitante. Una condizione personale. Mentre l’incapacità di gestione da parte degli altri di un problema è un handicap. È una parola che richiama una responsabilità più ampia». Lo stigma, come un tatuaggio, sulla pelle del piccolo Arturo, è un numero: 104. La legge del febbraio 1992 per l’assistenza, l’integrazione e i diritti. «Prima non c’era una normativa. Lo Stato, la scuola, prima di vent’anni fa non capivano le disabilità. Il percorso di diritti è stato riconosciuto da poco, e vent’anni non sono nulla. Il vero problema è quando la società non si fa carico di questa possibilità dell’essere umano, e standardizza, ragiona per grandi sistemi, sorvola troppo spesso sulle eccezioni. Invece il compito sociale di una città, di un Paese, è la difesa delle minoranze. Solo così si misura il grado di civiltà». Il dolore inonda il corpo, «un liquido che non riesce a venire fuori», come se avesse «ingoiato diserbante» la protagonista, che non ha nome. È una madre, universalizza il precipizio della sua condizione, in un dialogo costante, necessario, tra io e tu: della madre che riformula il mondo con il figlio. E non ha nome la città dove vivono, muovendosi a fatica «in un sistema in cui il diritto è un’occasione che devi prendere dalla giostra quando passa sotto l’anello». In un Paese come l’Italia da tenere di continuo sotto assedio. Eppure è Napoli. Riesce a dirla senza nominarla. Appare solo come “la città”. «Questa storia di madre può avvenire ovunque — spiega — Napoli è come Calcutta, New York, vissuta da un’enorme varietà umana. È unica e assomiglia al mondo. È così forte che non c’è bisogno di dare il nome. In letteratura bisogna eliminare ciò che non è necessario. Bisogna invece asciugare, andare dritti all’essenziale. È più bello se a Torino riescono a capire che è Napoli, con i suoi elementi unici, senza averlo detto». Un’adesione così forte della madre, con “la città”, che avverte il suo dolore, sussulta con lei quando il buio si sostituisce alla speranza. Napoli mai detta, bagnata dal mare, con il mare che concede una forza lenitiva. “La città” in cui lei e Arturo, passeggiando, prendendo la metro con la copia dell’Ercole Farnese affrontano le loro fatiche, e lei sente risalire «l’etimologia dei secoli su cui camminavo».
di Pier Luigi Razzano
Fonte: La Repubblica.it
10/01/2014