Nella casa circondariale di via Burla un corso di formazione per operatori assistenziali promosso dalla Asl, in collaborazione con il centro "Forma Futuro". Nove detenuti hanno ottenuto la qualifica di operatori sociosanitari e si prendono cura di altri detenuti con disabilità: un’esperienza che potranno spendere quando saranno fuori dal carcere
ROMA – Dietro le sbarre può essere ancora più difficile, di quanto non lo sia già nella vita fuori, rendersi conto che una sedia a ruote nasconde semplicemente una persona. Eppure, il lavoro che con pazienza sta portando avanti la casa circondariale di Parma va proprio in questa direzione: formare detenuti come veri e propri operatori sociosanitari in grado di assistere altri detenuti con disabilità, mettendo al centro soprattutto la relazione, quella capacità di interagire che senza dubbio giova sia a chi la mette in pratica sia a chi la riceve. "Ho capito che fare questo lavoro vuol dire anche sapersi relazionare», ha affermato a fine corso uno dei nove detenuti coinvolti nella formazione di base da operatori assistenziali, promossa dall’Asl di Parma in collaborazione con il centro "Forma Futuro" e finanziata dalla Fondazione Cariparma. L’articolo è stato pubblicato sul numero di aprile del mensile "SuperAbile Magazine", edito dall’Inail.
L’azione rientra nel progetto generale "Benessere psicofisico negli istituti penitenziari", elaborato dalla Asl per offrire ai detenuti, inclusi quelli disabili, risorse, dignità, autostima, crescita, una forza conquistata dentro con l’obiettivo di spenderla fuori. "Il carcere è di per sé un luogo di disagio, per il fatto stesso di limitare la libertà – sottolinea Francesco Ciusa, dirigente medico presso la Asl, direttore del programma Salute all’interno del penitenziario -. Per restituire abilità alle persone occorre togliere una certa dose di sofferenza, in modo che ciascuno possa diventare padrone della propria riabilitazione". In questa logica fioriscono una serie di singole azioni: dal sostegno psicologico ai laboratori, dal gruppo di educazione sanitaria all’assistenza ai detenuti con disabilità, prevedendo una specifica formazione. La casa circondariale maschile di via Burla ospita un centro clinico, reparto in cui sono ricoverati detenuti non necessariamente disabili, con patologie che necessitano di cure intensive tali da non poter essere eseguite in cella. Il reparto paraplegici invece accoglie nove persone in sedia a ruote, alcune con un bisogno di assistenza 24 ore su 24, mentre nella sezione minorati fisici vivono 50 detenuti con impedimenti e difficoltà di diverso genere e diversa gravità. Due delle nove persone che hanno seguito il corso da operatore assistenziale sono state intanto avviate al lavoro presso il centro clinico, le altre avranno la precedenza nel prestare servizio accanto ai detenuti disabili nel momento in cui la direzione del carcere andrà a sostituire gli operatori attualmente presenti.
"All’esterno un corso da operatore sociosanitario si compone di molte ore -precisa Katia Boni, operatrice sociale, referente del progetto Asl ‘Benessere negli istituti penitenziari’ -. Qui abbiamo elaborato una versione ridotta di 40 ore con principi di base sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, con l’intento di fornire crediti e opportunità da spendere all’uscita dal carcere". Un percorso verso orizzonti nuovi che i partecipanti – in buona parte stranieri, selezionati attraverso colloqui e sotto il profilo motivazionale – hanno scelto volontariamente con uno sguardo concreto a un domani, per alcuni vicino e per altri meno. A impartire la formazione, figure professionali: uno psicologo, un operatore della sicurezza e un’operatrice sociosanitaria, con l’intenzione di fornire una visione d’insieme che abbracci più competenze. Le lezioni e le ore di tirocinio? Su igiene, movimentazione e relazione personale.
"Assistere significa aver cura dell’igiene della persona ma anche dell’ambiente – spiega Boni -, agevolare la deambulazione, favorire gli spostamenti dal letto alla sedia a ruote in condizioni di sicurezza, supportare nell’alimentazione, dato che alcuni detenuti necessitano di ausili artificiali. Significa anche lavorare sulla relazione tra una persona e l’altra, sui rapporti che si vanno a instaurare. Si tratta di processi lunghi in un contesto complesso, che devono maturare e da monitorare costantemente. È già un risultato, comunque, che chi ha seguito il corso abbia in sé ora un margine di consapevolezza e di autonomia rispetto alle proprie mansioni. Vedremo man mano che inizieranno a lavorare". Anche le parole hanno il loro peso: chi presta assistenza non è un ‘piantone’, come vuole il gergo carcerario, ma un operatore sociosanitario a tutti gli effetti. Nella sezione alta sicurezza altri detenuti stanno svolgendo un corso di formazione base. E uno dei nove partecipanti del corso ha usufruito della misura alternativa, in base all’articolo 21, e sta frequentando una formazione completa da operatore sociosanitario con un monte ore ridotto, perché può avvalersi dei crediti maturati dentro. In fondo, il carcere è un pezzo di territorio, come fuori. "Qualcosa si muove – conclude la referente del progetto -, ma il vero obiettivo è portare nel penitenziario la metodologia dell’assistenza sanitaria territoriale. E farla funzionare". (Sara Mannocci)
Fonte: Superabile.it
24/04/2013