Lotta ai falsi invalidi e limiti reddituali? Proposte scoraggianti

Lotta ai falsi invalidi e limiti reddituali? Proposte scoraggianti

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Quattro donne adulte con disabilità raccontano la propria adolescenza, un’“età di passaggio” che, come scrive Simona Lancioni, «può rappresentare, per molte donne con disabilità, un’ulteriore forma di invisibilità». Ed è proprio alle adolescenti con disabilità che anche il nostro giornale – così come il Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) – ha deciso di dedicare l’8 marzo di quest’anno, Giornata della Donna

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma c’è un bellissimo dipinto di Gustav Klimt – qui a fianco riprodotto – nel quale il celebre pittore austriaco ha voluto rappresentare Le tre età della donna. Esso raffigura una bambina che dorme in braccio a una giovane donna – forse sua madre – anche lei con gli occhi chiusi, e una donna anziana ritratta di lato, con le spalle curve, il capo chino, i capelli sciolti, il viso nascosto dagli stessi capelli e da una mano che pare disposta nel gesto di riavviarli.

È un’opera densa di significati simbolici, interessante non solo per ciò che rappresenta, ma anche – e forse ancora di più – per ciò che l’autore ha scelto di non rappresentare. Mancano infatti le “età di passaggio”: quella da bambina ad adulta, e quella da adulta a vecchia, probabilmente perché è difficile rappresentare una persona mentre cambia. Così finisce che le età di passaggio rimangono nell’ombra, caratterizzate dalla loro temporaneità, connotate per ciò che manca: ciò che non si è più, e ciò che non si è ancora. Né bambina, né adulta. Né giovane, né vecchia. “Né carne, né pesce”. Nell’arte come nella vita.

Come Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) abbiamo constatato che – per molte donne con disabilità – l’adolescenza può rappresentare un’ulteriore forma di invisibilità che va a sommarsi a quella riservata alle persone con disabilità, e a quella ingenerata dalla mancanza di riconoscimento dell’appartenenza di genere. Da ciò l’idea di chiedere proprio alle donne con disabilità di raccontarci la propria esperienza adolescenziale.

È interessante notare che non ci è arrivata alcuna testimonianza di adolescenti attuali. Forse, giustamente, le adolescenti sono troppo impegnate a capire chi vogliono diventare. Ci sono giunte invece quattro testimonianze di donne adulte, ovvero dell’adolescenza vista “col senno di poi”, quando il senso di indefinitezza è un’esperienza che non fa più così male, e l’identità ha individuato i suoi argini.

Ringraziamo coloro che hanno accettato di raccontarsi, e dedichiamo la Festa della Donna del 2014 alle adolescenti con disabilità, perché, a dire il vero, non esiste età che non sia di passaggio. Non esistono persone che non siano in divenire. (Simona Lancioni)


Valentina Boscolo

Se ripenso al periodo dai 13 ai 19 anni – solitamente definito adolescenza – il mio primo pensiero istintivo è: «Oddio, che incubo, non vorrei ripercorrerlo per nessun motivo al mondo!». Eh sì, perché è stato un periodo duro, fatto di importanti mutamenti fisici e soprattutto emotivi.

Mi sono trasformata precocissimamente da bimba in donna (il menarca è arrivato nell’estate della quinta elementare), cominciando a sentire, come tutte, desideri e sentimenti da ragazzina: la voglia di truccarmi, vestirmi alla moda, ma soprattutto di avere un ragazzo come le mie coetanee (questo verso i 14 anni).

L’interesse per i ragazzi l’ho avvertito solo al termine delle superiori. E credevo che ciò fosse dovuto al fatto che ero “diversa”. Ripensandoci, però, vivendo metà delle mie giornate a scuola, in un liceo prettamente femminile, con venticinque donne (che frequentavo anche nel doposcuola) e zero maschi, le cose non sarebbero potute andare diversamente anche se avessi voluto!

Il non avere avuto un “fidanzatino” negli anni della scuola mi feriva molto, mi sentivo brutta, sgraziata e “invisibile”: i pochi maschi che conoscevo non mi degnavano di uno sguardo.

Ora, se ci ripenso, mi accorgo che non è stato proprio così, qualcuno c’era, ma a me non piaceva, e quindi anch’io, involontariamente, diventavo “schizzinosa”.

Per me essere disabile non è mai stato sinonimo di accontentarsi o adagiarsi. Ho sempre perseguito ciò che desideravo, ma all’epoca ero troppo sciocca e fragile per capirlo.

Nella mia classe mi inserii in un gruppo di amiche con le quali esco tuttora, e che so ci saranno sempre.

Dai 16 ai 23 mi sono lanciata nell’avventura di viaggiare per il mondo con un gruppo composto da disabili fisici e normodotati. Ora questa esperienza si è conclusa per motivi personali, ma mi ha formata culturalmente, mentalmente e umanamente. Ho conosciuto persone speciali, altre pessime, ho gioito, ho sofferto, ho molto amato, ma fa parte della vita.

Ora che, alle soglie dei trenta, con un lavoro semi-stabile, mi guardo indietro e sorrido, penso che non tornerei mai più indietro, eccezion fatta per i miei genitori che ora non sono più giovanissimi e portano con sé i problemi dell’invecchiare, un aspetto che io riesco a gestire e a digerire con fatica. Dunque tornerei indietro solo per riaverli sani, forti ed entusiasti come un tempo, pronti a sorreggermi in tutto, mentre ora tocca a me sorreggere, e non credo di essere pronta, ma forse non lo si è mai.


Oriana Fioccone

Alla veneranda età di cinquant’anni, ricordarsi del periodo adolescenziale non è un’impresa da poco, anche perché la memoria fa già brutti scherzi!

Cosa ricordo di quegli anni? Non saprei, ho vaghe immagini confuse. Cosa facevo in quel periodo? Trascorrevo il mio tempo studiando e leggendo, non mi sembra che facessi altro di diverso.

Mi scontravo con questa malattia di cui i dottori sapevano ancora ben poco e, quindi, mi usavano quasi come una “cavia”; rammento che mi facevano bere una sostanza polverosa da diluire nell’acqua: la glicocolla, penso di averne ingollato ad ettolitri.

In famiglia non si parlava della malattia, quasi fosse una colpa, ma si tentava di tutto, in ogni senso. Ricordo “viaggi della speranza” in tutt’Italia, per incontrare maghi e santoni che promettevano miracoli; si partiva, si stava fuori da casa anche per lunghi periodi, lontani dalla famiglia e dagli affetti, con l’unico risultato di sprecare inutilmente tantissimo denaro; ma, quando non si sa dove sbattere la testa, si cerca ogni strada, spesso già sapendo che non servirà. Ci si illude, ci si obbliga ad illudersi e io odio profondamente chi si approfitta di questa disperazione.

Che rapporti avevo con le coetanee e con i coetanei? Ho frequentato i tre anni della scuola media e i cinque del liceo in una classe femminile, quindi non avevo quasi contatti con i ragazzi. Le mie amiche, probabilmente, mi parlavano di infatuazioni, simpatie o fidanzati ed io ascoltavo, ma non immaginavo che potessi interessare a qualcuno. Per quale motivo avrebbe dovuto succedere? Io ero malata!

Inoltre, non mi avevano parlato di come potesse essere la mia vita, quindi mi rifugiavo nel libri, senza fare grandi programmi. Diventavo più esperta di cultura, di politica, di problemi sociali e, nello stesso tempo, mi difendevo con il sarcasmo e l’ironia.

All’età di vent’anni ero più corazzata, uscivo di più, ma non ero certo io a prendere l’iniziativa. C’era un ragazzo che mi piaceva, passavo tanto tempo con lui a discutere di argomenti diversi e a ridere insieme. Un giorno mi ha detto: «Ma sai cosa mi hanno chiesto? Se io e te stiamo insieme! Ma cosa vanno a pensare, vero?». E io ho dovuto rispondere ridendo e buttandola sullo scherzo, ma dentro di me mi sono sentita morire. Ci sono stati anche ragazzi a cui, forse, piacevo, ma semplicemente non piacevano a me.

Da quanto ho scritto, si potrebbe dedurre che la mia adolescenza sia stata un periodo solamente triste, però non è stato così, perché ho una grande famiglia, composta da cugini e zii, trascorrevo molto tempo con loro ed era molto divertente. Certo, non si parlava dei miei problemi di adolescente, quasi si avesse il timore di affrontarli, quindi mi ritrovavo da sola a pensarci, senza confrontarmi con altri.

Voltandomi indietro, vedo che molte cose sono cambiate, io – noi -, ci nascondevamo dalla realtà, credendo che questo facesse scomparire i problemi; invece bisogna affrontarli, per imparare a conviverci insieme.

Per capirlo ho avuto bisogno di apporti esterni, uno dei quali è stato l’imbattersi nel libro Il vizio di vivere di Rosanna Benzi; leggendolo ho iniziato a capire che – forse, e con un milione di cautele -, anch’io avrei potuto trovare una persona che mi volesse bene, accettandomi con tutte le mie problematiche.

Altri aiuti fondamentali sono stati l’uscire dalla mia realtà circoscritta, l’incontro con i membri dell’associazione UILDM [Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, N.,d.R.]; finalmente ho capito che non ero sola, che potevo e dovevo pretendere come gli altri e non aspettare e ringraziare quello che mi veniva dato, quasi fosse un’elemosina.

Concludendo, voglio dare un consiglio, sia agli adolescenti che ai familiari: parlate, discutete, condividete, non abbiate paura; se necessario, fatevi aiutare, ma non rinchiudetevi.

Cavoli, se io l’avessi capito anni fa, quante cose in più avrei potuto fare, però, se devo essere concreta, devo ammettere che, nel corso di questi anni, c’è anche stata una grande evoluzione della società e della mentalità, forse anche grazie a noi, che abbiamo avuto il coraggio di buttarci in imprese, a prima vista impossibili (il diritto allo studio, al lavoro); tante volte ci siamo scontrati, ma, talvolta, abbiamo raggiunto qualche piccolo risultato.

Certo, bisogna continuare a lottare, ma vorrei far presente ai giovani di oggi che – la prima volta che sono andata all’università – per salire ai piani superiori ho dovuto usare un montacarichi per i pacchi, perché non esistevano ascensori o montascale adeguati, semplicemente perché chi andava a studiare poteva salire le scale. Esistevano forse altre persone?…


Francesca Arcadu

Ho 38 anni e della mia adolescenza ho un ricordo diviso a metà, tra il periodo spensierato dei primi anni di liceo, fatti di nuove amicizie, studio matto e disperatissimo e il cambiamento a volte doloroso, tra molti pensieri e nuove consapevolezze.

Diventare adolescente è già abbastanza impegnativo senza un handicap, non sai più chi sei e come vuoi essere, capisci che vuoi seguire la tua strada, ma non sai ancora come. Fare tutto questo percorso con una malattia neuromuscolare progressiva aggiunge un carico pesante di riflessioni sul presente e sul futuro. Ero una ragazzina socievole, allegra e sorridente, ma dentro scavavo tunnel di pensieri e vuoti interiori, per colmare i quali ci sono voluti anni e i lavori sono ancora in corso…

Non è facile diventare la persona che vorresti essere, vivendo una vita decisamente condizionata dal contesto. A volte penso che tutto sommato, però, è stata più semplice un’adolescenza vissuta negli Anni Novanta con una dipendenza fisica dagli altri, piuttosto che dalle mode, dai cliché e dai modelli che adesso sembrano schiacciare i ragazzi e le ragazze.

Ho vissuto un’adolescenza di grandi ideali, molto impegno nel sociale e coltivazione di ciò che sarei diventata anni dopo; per questo non mi pento del tempo passato sui libri, alle riunioni della UILDM anziché in giro con gli amici, del tempo passato da sola a scoprire mondi fatti di cinema, letteratura e interessi vari. La solitudine, quando la scegli, è una grande ricchezza.

Poi sono arrivate le amicizie, le uscite, i fidanzati, ma solo una volta che sono stata in grado di costruirmi un’interiorità che non avesse paura di mostrarsi, di aprirsi agli altri e di ricevere anche qualche schiaffo dalla vita, sapendosi difendere e ricostruire ogni volta. E allora, quando le radici erano ben piantate, ho iniziato a fiorire e a diventare la donna che desideravo essere.


Fulvia Reggiani

Ho vissuto la mia adolescenza negli Anni Ottanta. Pochi anni prima, io e la mia famiglia eravamo venuti a conoscenza della mia malattia. Facemmo accertamenti perché ero una bambina pigra, dicevano i medici, e camminavo “in modo strano”. Il responso fu “distrofia muscolare”: le parole del medico riecheggiano ancora come fosse stato ieri quando disse, rivolto a mia mamma: «Mi spiace signora, ma sua figlia prima o poi dovrà usare la sedia a rotelle».

Avevo circa dieci anni. Da quell’istante, e nei futuri anni da adolescente mi sono “limitata” a vivere i miei giorni nell’attesa di quel momento.

Abitavo in un paesino piccolissimo dove la diversità non era contemplata, perciò, fin dalle scuole elementari, ero considerata la compagna handicappata (vocabolo su cui in futuro si è molto discusso, arrivando alla definizione più gentile di “disabile” o “diversamente abile”), intimorivo i genitori dei miei compagni che, anziché esortare i propri figli all’inclusione, li incoraggiavano all’indifferenza.

In quel periodo mia mamma mi sollecitava ad uscire, a frequentarli, ma io non mi sentivo accettata, così ho vissuto guardando dalla finestra l’adolescenza altrui e vivendo di riflesso quella di mia sorella, di tre anni più giovane.

Dopo le scuole medie non proseguii gli studi a causa di mancanze sociali e strutturali: non esistevano mezzi di trasporto o scuole accessibili, e io non ero portata per studiare in autogestione; per le persone handicappate l’unica alternativa erano i Centri Diurni. Così scelsi di rimanere a casa. Ero abbastanza autonoma, mi muovevo a piccoli passi, perciò mi occupavo delle faccende domestiche e cucinavo con passione. Non ero particolarmente triste, avevo accettato con passività questa mia condizione, consapevole che non avrei mai potuto vivere una vita “normale”.

Nell’estate dell’88, all’età di 23 anni, conobbi gli amici della UILDM per merito di mio papà che, iscrittosi all’Associazione anni prima, ricevette un invito a prendere parte a un viaggio a Barcellona e persuase me e mia mamma a parteciparvi. Arrivò così il “momento” di usare la sedia a rotelle e, paradossalmente, fu la mia rinascita.

Con l’aiuto di questi nuovi amici, con le loro esperienze e il loro supporto morale, vidi con occhi diversi la carrozzina: l’oggetto che prima di quel giorno sentivo come un impedimento a una vita normale, era diventato il fautore della mia emancipazione. Mi aprii al mondo e da quel momento feci tutte le esperienze che mi ero negata nell’adolescenza: frequentai nuovi amici, anche del paese, andai in vacanza con un’accompagnatrice che non era mia mamma, mi innamorai, mi fidanzai, ebbi le mie delusioni, e solo allora compresi che non era stata la barriera fisica della disabilità ad ostacolare la mia integrazione, ma la paura di affrontare la vita che di frequente si ha nell’età adolescenziale.

Fonte: Superando.it

07/03/2014