Marche: no a quell’istituzionalizzazione legalizzata

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Cieco dalla nascita, l’alpinista austriaco scala "al buio" le cime più alte del mondo. E ha deciso di raccontare la sua esperienza in un libro, best-seller in Germania, Austria e Svizzera. Per "aprire gli occhi ai vedenti"

ROMA – Inserirlo nel Guiness dei primati sarebbe riduttivo: quello che fa somiglia a una "missione impossibile" degna dei più avventurosi film di successo. Ha scalato sei delle sette cime più alte del mondo, affrontando fra l’altro una delle pareti più insidiose delle Alpi e delle Dolomiti, come la parete nord della Cima Grande di Lavaredo o il lato sud della Marmolada. È appena tornato da una spedizione in Turchia sul monte Ararat, vicino all’Armenia e all’Iran. Un grande alpinista? Sì, e per di più non vedente dalla nascita. Il suo nome è Andy Holzer, la sua vita avventurosa è raccontata nell’intervista raccolta da Laura Badaracchi per il numero 6/2013 di SuperAbile Magazine, la rivista dell’Inail sulla disabilità. Fino a 20 anni, il giovane Andy, austriaco, non aveva fatto pace con la sua disabilità. Sono passati altri 27 anni e ha scelto di raccontarsi in Gioco d’equilibrio. Cieco sulla cima del mondo, edito da Keller. Pagine in cui ripercorre diverse arrampicate, oltre alle escursioni – fin da bambino – con sci di fondo, mountain bike e surf. Un best-seller in Germania, Austria e Svizzera, tradotto in italiano da Keller editore. Dall’infanzia vissuta a Lienz, paesino del Tirolo orientale, fino ai concerti del suo duo musicale, approdando a una passione "temeraria": le vette. Non può vedere le montagne con gli occhi, ma gli altri suoi sensi – udito, olfatto, gusto e tatto – gli danno le coordinate necessarie per scalare le cime più alte della terra, come ha dimostrato nelle sue spedizioni.

Senza guardare sentieri, pareti rocciose né il paesaggio che ricompensa le fatiche della salita, Andy coglie con un sesto senso le informazioni che gli sono necessarie per assemblare una precisa immagine del mondo. Superando gli ostacoli con una determinazione condita di ottimismo che affonda le radici nella fiducia: in se stesso, ma anche nei suoi affetti. La famiglia, gli amici: nel volume Holzer racconta la crescita con genitori per cui la sua cecità non è mai stato un limite invalicabile. La sfida più grande? "Aprire gli occhi ai vedenti". Una cima davvero ardua da scalare.

Non le sembra di sfidare il limite, la sorte, attraverso l’alpinismo estremo?
Per tanti ciò che faccio può sembrare folle ma per me è la normalità: quando qualcuno mi chiede se sono triste per il fatto che non posso vedere le montagne, chiedo se è triste di non poter essere in grado di volare. Il mio cervello non sa che sono cieco e si comporta come quello di tutti gli altri: sta a me inviargli i segnali giusti per arrivare in cima alla vetta. Ogni roccia ha il suo odore e le mie mani sono in grado di "leggerla" per capire cosa mi aspetta 20 metri più avanti. Anche l’udito è importantissimo.

Come ha imparato ad arrampicare?
Innanzitutto, ho dovuto memorizzare nella visualizzazione mentale la rappresentazione della parete che sto per scalare. Poi il feedback degli altri sensi mi dice se la realtà coincide davvero con l’immagine che ho in testa. Se è così, posso proseguire con la scalata, altrimenti sono costretto a sincronizzare di nuovo i due livelli con l’aiuto degli organi di senso di cui dispongo. Nel libro scrive: «Dipendere l’uno dall’altro può essere una benedizione». Dipendere dagli altri non è un peso. Raggiungere un obiettivo insieme è meraviglioso. Una volta che si è capito che ciascuno di noi ha un’abilità con cui può contribuire alla riuscita di un’impresa, si tratta solo di scoprirla. È da presuntuosi credere che a questo mondo ci sia qualcuno davvero indipendente. Naturalmente io dipendo molto dagli altri: potrei considerarlo uno svantaggio sostanziale o una grande ingiustizia riservatami dal destino. Ma nella mia "seconda" vita ho imparato a pensarla diversamente.

Quindi com’è cambiata la sua prospettiva?
Si sprecano molte energie se si cerca di nascondere le proprie debolezze per mettersi in testa un falso senso di superiorità. C’è tutto da guadagnare a riuscire a mettere da parte questo modello comportamentale non costruttivo. A quota 6mila per un cieco e una persona priva di un braccio è infatti molto più semplice dichiararsi a vicenda cosa si è in grado di fare, anziché cercare di ingannarsi reciprocamente. In quel modo, le poche energie disponibili in situazioni così estreme si possono impiegare per le cose essenziali. Una consapevolezza che mi ha fatto capire che il punto non è ciò che si ha o non si ha, ma come si gestiscono i propri deficit e come ci si relaziona con gli altri.

Le vette la mettono in contatto con l’assoluto?
In montagna non contano le gerarchie né i soldi in banca o le polizze assicurative. Lassù le uniche assicurazioni che contano sono il compagno di cordata, il buon Dio e se stessi. Penso pure che a volte Dio si infili nei miei pensieri per guidarmi nelle decisioni importanti. E ne sono ben contento. Ci sono situazioni, sia su una parete verticale che nella vita quotidiana, in cui sono confuso. Significa che è proprio ora che io ceda il volante per un po’ e chieda a Lui di guidare al mio posto. I miei sensori in quelle circostanze sono tarati sulla massima sensibilità, così riesco a capire in che direzione devo andare e quando è tempo che io riprenda il controllo. Il momento in cui percepisco che a guidarmi non sono io, spesso dura solo pochi secondi. E in quella fase di solito succedono meno guai rispetto alle volte in cui cerco di cavarmela da solo.

Scalare le montagne è una scuola di vita?
Il mondo della montagna ha contribuito molto ai miei progressi, evidenti a dispetto del mio handicap: nel corso del tempo la fiducia in me stesso è andata aumentando e sono sempre in cerca di nuove sfide. Perciò ogni giorno di più cerco di vivere una vita per quanto possibile dinamica ed emozionante, perché so che ogni mattina è un evento unico e irripetibile.

Fonte: Superabile.it

14/08/2013