di Simona Lancioni
Se molte donne con disabilità non riescono ad accedere a servizi sanitari, come quelli di ginecologia e ostetricia, questo non dipende dalla loro disabilità, ma dal fatto che spesso quei servizi sono progettati, realizzati, organizzati e gestiti male, assumendo come unico standard di riferimento il/la “paziente sano/a”. Ben lo dimostra un’interessante indagine curata dal Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare)
Qualche volta si rivolgono al privato. Pagando. E se anche l’ambulatorio privato è inaccessibile, sempre pagando, si può ottenere una visita domiciliare. Quella ginecologica, ad esempio, perché per essere eseguita non richiede l’uso di una strumentazione particolare. Qualche volta si attivano le reti informali (“l’amica ginecologa”). Qualche volta si tengono il fastidio. Sperano che passi, sperano che non sia niente. E la prevenzione? Scusa, quale prevenzione? Fare ricorso? Sì, a volte lo fanno, ci provano. Ma non possono passare tutta la vita a fare ricorsi, perché, dove vanno vanno, è sempre la stessa storia, o non entrano nell’ambulatorio, o i medici non sanno dove mettere le mani, e come ci arrivano sul lettino ginecologico? E come si visita una donna interessata da autismo che non accetta il contatto?
A fronte dunque dei tanti racconti di donne con disabilità che testimoniano le difficoltà incontrate nell’accedere ai servizi di ginecologia e ostetricia, il Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) ha ritenuto necessario svolgere un’indagine, intitolata appunto L’accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia alle donne con disabilità, finalizzata a scoprire le ragioni di queste difficoltà. Le donne con disabilità, vale sempre la pena ricordarlo, sono spesso vittime di una discriminazione multipla originata dall’essere simultaneamente donne e persone con disabilità.
L’indagine [della quale anche il nostro giornale aveva a suo tempo accennato, in fase di preparazione, N.d.R.] è stata condotta utilizzando un questionario standardizzato appositamente costruito grazie anche alla consulenza di Marialuisa Framarino dei Malatesta, docente di Ginecologia e Ostetricia all’Università La Sapienza di Roma, di Tullia Todros, docente di Ginecologia e Ostetricia all’Università di Torino, di Paola Castagna, dottoressa che gestisce l’Ambulatorio Ostetrico-Ginecologico dedicato alle donne con disabilità fisica e psichica all’Ospedale Sant’Anna di Torino e di Piera Nobili, presidente di CERPA Italia (Centro Europeo Ricerca e Promozione dell’Accessibilità).
Non era tuttavia nelle intenzioni del Coordinamento scrivere un trattato sull’accessibilità dei servizi sanitari. Infatti, pur avvalendosi di consulenze eccellenti, e pur essendo stata condotta con scrupolo e rigore metodologico, questa ricerca rimane comunque l’opera di un gruppo di “volonterose volontarie”. Questo, per altro, non è un fattore di debolezza, ma è invece un punto di forza: siamo partite infatti dalle donne con disabilità, dalle loro difficoltà, dalle loro aspettative (soprattutto da quelle disattese), per riaffermare il concetto che non si possono progettare e realizzare servizi sanitari senza conoscere il punto di vista delle e degli utenti dei servizi in questione.
La ricerca è stata condotta attraverso un campione (non probabilistico) composto di 61 strutture ed enti sanitari pubblici che, rispondendo al questionario, hanno manifestato un’apprezzabile disponibilità. Tali strutture ed enti operano in contesti territoriali molto eterogenei (ci sono grandi città e piccoli paesi), e sono situati nelle seguenti aree geografiche: Asti e dintorni, Chioggia (Venezia) e dintorni, Livorno, Modena e dintorni, Pisa, Roma e dintorni, Sassari e dintorni.
Il concetto di accessibilità cui si è fatto riferimento non è quello – ormai datato e restrittivo – di abbattimento delle barriere architettoniche, ma quello della progettazione universale (Universal Design) e del benessere ambientale e relazionale.
I dati raccolti hanno evidenziato come nella progettazione, nella realizzazione e nell’organizzazione dei servizi sanitari non sia stato ancora recepito un approccio sistemico dell’accessibilità, ossia un modo di guardare all’accessibilità che non si limiti a considerare i singoli ambienti o servizi, ma che collochi gli stessi all’interno di un sistema complesso – di ambienti e servizi -, coordinato e funzionante.
In base a questo approccio, assumono rilevanza aspetti come i tempi di apertura al pubblico dei servizi sanitari: tanto minore è il tempo di apertura al pubblico, tanto maggiore potrebbe essere la difficoltà di accesso per l’utente. Il fatto poi che soprattutto in alcuni piccoli centri si registri un numero di ore settimanali di apertura dei servizi molto basso (2, 4, 5, 6, 8 ore), e che vi sia una generale propensione ad erogare i servizi al mattino, ha una ricaduta sotto il profilo della conciliazione dei tempi di vita con quelli lavorativi.
Oppure, sempre secondo lo stesso approccio, assume rilevanza la presenza di un Centro Unico di Prenotazioni (CUP) il quale è, a tutti gli effetti, un indicatore di accessibilità. Infatti, l’assenza del CUP scarica sull’utenza l’onere di trovare i riferimenti dei diversi uffici preposti a ricevere le prenotazioni delle differenti visite. Nel nostro campione solo il 42,62 % (una minoranza) degli enti coinvolti dichiara di averne uno.
Rilevante è poi, ad esempio, anche la presenza di una reception: nel nostro campione essa c’è in 32 strutture (52,46 %), ma in 7 casi è stata segnalata la presenza di ostacoli lungo il percorso per raggiungerla e in altrettanti non c’è la possibilità di avvicinarsi agevolmente al banco informazioni con la sedia a rotelle. Importante è anche notare che solo in 7 di queste reception gli operatori sono stati preparati a comunicare con persone con disabilità sensoriali e con disabilità cognitive lievi.
Fa invece una certa impressione scoprire che 26 strutture sanitarie (il 42,62 % del nostro campione) non dispongono di un bagno accessibile alle persone con disabilità. Importante è inoltre constatare che il 63,93 % delle sedi valutate o non è servito da mezzi di trasporto pubblici oppure, se ci sono, essi sono inaccessibili alle persone con disabilità. Ed è certamente significativo sapere che non sempre è possibile trovare uno spogliatoio accessibile all’interno degli ambulatori, e che, anche nei casi in cui è presente, non è scontato che esso garantisca la riservatezza della paziente nella fase preparatoria alla visita (un esempio: solo 23 delle 60 strutture che effettuano le visite ostetrico-ginecologiche – il 38.33 % – dispongono di uno spogliatoio sufficientemente ampio da consentire il movimento di una persona in sedia a rotelle e di un eventuale accompagnatore, e due di essi non garantiscono la riservatezza della paziente).
E ancora, è importantissimo sottolineare che è stata riscontrata una generale impreparazione delle strutture sanitarie nel gestire le manovre di movimentazione delle pazienti che si spostano in sedia a rotelle, per consentire alle stesse di raggiungere il lettino ginecologico.
È rilevante infine, e insieme sconvolgente, scoprire che solo una minima parte dei medici che svolgono le visite ostetrico-ginecologiche hanno ricevuto una formazione sulle diverse disabilità (motoria, sensoriale e intellettiva).
Questi, ovviamente, sono solo alcuni dati, più esplicitati e meglio commentati nel rapporto di ricerca. Li citiamo solo per dare un’idea di come è stata impostata l’indagine.
È ovvio poi che l’accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia è anche molto altro e infatti, nel rapporto di ricerca, sono disponibili numerosi altri dati, e molti altri ancora avrebbero potuto essere raccolti, se solo ne avessimo avuto il tempo e l’energia, per approfondire, ad esempio, gli aspetti relazionali (che costituiscono anch’essi una variabile imprescindibile dell’accessibilità), ovvero l’effettiva disponibilità all’ascolto, l’organizzazione dei servizi e la corporeità (come si possono infatti curare i corpi senza interrogarsi sulla corporeità propria e altrui?) ecc. Ma, lo ribadiamo, il nostro intento non era quello di scrivere un’opera enciclopedica. Il nostro scopo era – ed è – quello di denunciare le lacune riscontrate, e la conseguente discriminazione subita dalle donne con disabilità nell’accedere ai servizi sanitari, per consentirne la rimozione.
In altre parole, il nostro scopo era – ed è – quello di promuovere un modo diverso di pensare all’accessibilità degli ambienti sanitari (prezioso, a tal proposito, è il testo all’interno del rapporto curato dalla già citata Piera Nobili), ribadendo che l’accesso ai servizi sanitari sulla base di uguaglianza con gli altri cittadini, e senza discriminazioni fondate sulla disabilità, è un diritto (come esaustivamente argomentato, sempre nel rapporto, da Carlo Giacobini, responsabile del Servizio HandyLex.org e direttore editoriale di «Superando.it») e fornendo strumenti di approfondimento (utilissimo il repertorio di risorse documentarie in tema di progettazione accessibile di strutture sanitarie, prodotto dal CRID, Centro Regionale Informazione e Documentazione sull’Accessibilità, promosso dalla Regione Toscana).
In ultima analisi, il nostro scopo era ed è quello di favorire la diffusione di una cultura inclusiva che tenga in debita considerazione anche le differenze di genere.
Se ancora oggi molte donne con disabilità non riescono ad accedere ai luoghi e ai servizi sanitari, questo non dipende dal fatto che loro hanno una disabilità, ma dalla circostanza che spesso quei luoghi e quei servizi sono progettati, realizzati, organizzati e gestiti male, assumendo come unico standard di riferimento il/la “paziente sano/a”, senza considerare le tante diversità (di età, di genere, di condizione fisica, di etnia ecc.), e senza coinvolgere l’utenza nella fase di progettazione.
Chi progetta un ambiente e un servizio sanitario progetta un’idea di salute, e non è più ammissibile, né tollerabile, che questa idea di salute si sottragga al confronto con le diversità che ogni essere umano, ognuno e ognuna a proprio modo, incarna.
Fonte: Superando.it
23/09/2013