Scuola, migliorano i voti degli studenti dislessici grazie alle mappe mentali

Scuola, migliorano i voti degli studenti dislessici grazie alle mappe mentali

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Quella degli abusi e maltrattamenti fisici e psicologici su persone diversamente abili è ormai una realtà troppe volte documentata. La parola chiave per una possibile soluzione è prevenzione.

Cagliari 15 febbraio 2016, Grottaferrata 8 febbraio 2016, Licata 18 gennaio 2016. Drammaticamente d’attualità il fenomeno degli abusi e maltrattamenti fisici e psicologici su persone diversamente abili in strutture deputate alla loro riabilitazione e cura.

Una realtà documentata attraverso le immagini dei video realizzati con le telecamere nascoste installate dai Carabinieri durante le indagini, dalla quale non si può sfuggire, che nessuno può più permettersi d’ignorare, soprattutto le istituzione e le discipline sociali che sono chiamate a dare risposte concrete di prevenzione.

Prevenzione, questa è la parola chiave, perché quando le Forze dell’Ordine intervengono la sofferenza è già diventata troppa. Dolore per chi subisce le violenze e per i familiari travolti dal senso di colpa per aver delegato ad altri, sedicenti esperti, la cura dei propri cari.

E allora ben venga l’intervento dell’Autorità ad interrompere questi insopportabili soprusi, ma è necessario che ci si adoperi per far in modo che non si creino le condizioni perché questi fenomeni tornino a verificarsi.

Ma quali interventi possono essere attuati per rendere le persone con disabilità meno esposte a maltrattamenti?

Innanzitutto occorre dire che il ricorso all’inserimento delle persone con disabilità in strutture ad hoc dovrebbe avvenire solo a scopo abilitativo/riabilitativo e cioè per far in modo che la persona sviluppi/riacquisti delle competenze assenti o perse a causa della menomazione.

Ciò significa che i servizi dovrebbero sforzarsi di implementare interventi che consentano alla persona diversamente abile di risiedere nel proprio nucleo familiare, garantendo un buon livello di qualità della vita e un progetto individualizzato di autorealizzazione.

Diversamente, l’estrapolazione dal proprio contesto sociale e l’allontanamento da familiari ed amici è già di per sé un fattore di rischio. Al contrario la deistituzionalizzazione e l’integrazione sociale sono fattori di protezione.

Anche laddove si renda necessario l’inserimento in un centro è fondamentale che esso sia quanto più possibile connesso con il tessuto sociale. Nello specifico è importante che preveda attività di socializzazione, scambio ed integrazione con la comunità tutta, non solo con gli addetti ai lavori o altre persone disabili.

È inoltre necessario che le strutture abbiano regole flessibili di partecipazione e visita da parte di familiari ed amici in modo che questi ultimi possano fare visita al proprio congiunto quando ritengono opportuno, nonché avere un ruolo attivo nel contribuire, con suggerimenti e osservazioni, alla gestione delle attività a cui partecipano gli utenti della struttura.

L’isolamento sociale degli utenti e degli stessi operatori determina un deterioramento dell’autostima, un emergere di emozioni negative le quali innescano a loro volta comportamenti problematici da parte delle persone con disabilità e reazioni scomposte da parte degli operatori.

Per qualsiasi persona disabile dover convivere o anche passare buona parte della giornata con altre persone disabili ha un contraccolpo psicologico che attacca l’autostima.

Per tale motivo è necessario far comprendere alla persona disabile il senso e l’utilità della frequentazione della struttura. Ne consegue che le attività proposte debbano avere degli obiettivi riabilitativi chiari e concreti, nonché debbano essere ritagliate sullo stile di personalità e sul livello di sviluppo psico-intellettivo.

Se al contrario viene veicolato il messaggio che si deve frequentare un centro o vivere in una struttura residenziale perché non c’è alternativa, non solo i comportamenti oppositivi e problematici insorgeranno con maggiore probabilità, ma si innescheranno anche stati depressivi che rendono più vulnerabili ed inclini a non tutelarsi da comportamenti di abuso.

Accanto a questi interventi di tipo strutturale ne possono essere attuati altri utili a ridurre il rischio di fenomeni di violenza.

Uno fra tutti la selezione del personale previa esclusione della presenza di disturbi psicologici e/o di personalità. Effettuare una valutazione dell’idoneità psicologica allo svolgimento dell’attività di supporto assistenziale a persone con grave handicap, appare ancor oggi un tabù. Tuttavia, esso deve essere infranto definitivamente riconoscendo che non tutti hanno l’equilibrio psicologico richiesto nell’assistere questo tipo di utenza.

Una volta selezionato il personale che ci offre maggiori garanzie dal punto di vista del controllo degli impulsi è comunque necessario fornire strumenti formativi atti a migliorare la capacità di gestione dei comportamenti problematici e principi etici che assicurino il massimo rispetto della persone con disabilità.

Troppo spesso si parte dal presupposto che in presenza di un deficit cognitivo la persona sia impermeabile a comportamenti che ledono la sua dignità. Così accade che si violi la privacy durante le attività di assistenza o si attuino forme di interazione svalutanti.

In altri casi l’uso della prevaricazione è determinato dalla non conoscenza di tecniche per l’eliminazione di comportamenti problematici. Insegnare tecniche di analisi funzionale del comportamento risulta molto utile per comprendere come mai un comportamento problematico è messo in atto e modificare le condizioni che lo determinano (Carr E. G. et al. 1998).

Un altro tipo di intervento rivolto agli operatori è quello della supervisione periodica atta a prevenire il burn-out.

Tra i sintomi di questa condizione è possibile riscontrare l’irritabilità, l’intolleranza verso le richieste e l’atteggiamento cinico verso i pazienti: tutti elementi che predispongono all’attuazione di comportamenti di prevaricazione ed abuso.

Le supervisioni sono una prassi consolidata, ma esse il più delle volte sono centrate sull’utenza o sulla ricerca di soluzioni pratiche alle problematiche.

Poco spazio viene lasciato alla dimensione emotiva dell’operatore. Si dovrebbe incentivare l’espressione, la condivisione e l’elaborazione degli stati d’animo in un setting idoneo e protetto prevenendo così l’espressione impulsiva della rabbia.

Utile anche la somministrazione periodica del Muslach Burnout Inventory allo scopo di rilevare stati di burn-out non riconosciuti (Maslach et al. 2000).

Infine, ma non meno importante, l’intervento formativo sulle persone con disabilità (Hingsburger D., 1994) utile ad incrementare:

La conoscenza del corpo e delle caratteristiche sessuali per saper distinguere comportamenti assistenziali da un abuso sessuale;

la consapevolezza del diritto alla privacy;

l’assertività e la capacità di non aderire ai desideri degli altri senza riguardo per il proprio bisogno di libertà e auto-protezione;

la fiducia nel poter confidare ad una persona autorevole eventuali abusi subiti;

la comprensione dei diritti personali e sugli strumenti legislativi che proteggono le persone disabilità dagli abusi;

un salutare concetto di Sé e una buona autostima quale deterrente verso chi vuole fare vio

Come si vede il ventaglio di potenziali interventi è ampio, spetta ai servizi territoriali e alle direzioni sanitarie dei centri che ospitano persone con disabilità raccogliere la sfida di attuarli per proteggere concretamente le persone con disabilità.

Fonte: Ordinepsicologilazio.it

18/04/2016