Non si tratta di un semplice ascolto empatico lasciato al personale sanitario di buon cuore, ma di una tecnica precisa che colloca al centro del rapporto tra medico e paziente il racconto della malattia.
"Le persone malate hanno bisogno di medici che possano capire la loro patologia, trattare i loro problemi di salute e accompagnarli lungo la malattia. Malgrado i recenti incredibili progressi nella tecnologia e nelle cure, talvolta i medici mancano della capacità di riconoscere le difficoltà dei loro pazienti, di empatia estesa verso coloro che soffrono e di unirsi sinceramente e coraggiosamente a loro nella malattia. Una medicina competente solo sul piano scientific o non può aiutare il paziente a fare i conti con la perdita della salute o a trovare un significato per la sua soferenza. Insieme alle capacità scientifice, i medici devono imparare ad ascoltare i racconti dei pazienti, ad afferrare e onorare il loro vissuto. Questa è la competenza narrativa che devono acquisire, la stessa competenza che gli esseri umani usano per assorbire, interpretare e rispondere alle storie". Così scrive Rita Charon, medico e letterata, in un lavoro pubblicato sul "Journal of the American Medical Association" nel 2001 e considerato il primo documento teorico completo della medicina narrativa, una nuova "corrente di pensiero" all’interno della pratica medica nata negli Stati Uniti alla fine degli anni novanta.
La stessa Charon dirige il primo corso universitario di medicina narrativa, aperto in quegli anni alla Columbia University di New York e da allora diventato il centro di gravità di un movimento che vuole rimettere i pazienti e le loro storie al centro della relazione con cui li ha in cura.
"La medicina clinica è fatta di conoscenze scientifiche, dati, tecnologie, logica, ragionamento, soluzioni per i problemi e decisioni" spiega Luciano Vettore, past president della Società italiana di pedagogia medica. "Questo è il metodo clinico, ma non basta: l’esercizio della medicina è anche relazione d’aiuto, tra persone che hanno un corpo ma anche una psiche, che si basano sulla biologia ma anche su emozioni e sentimenti. E le persone, sane o malate che siano, parlano, narratno ed entrano in comunicazione l’una con l’altra".
La medicina narrativa è una tecnica ben precisa, non il semplice ascolto empatico che qualsiasi persona di buon cuore può prestare al proprio simile. Essa si applica a diversi ambiti: all’anamnesi esistenziale e relazionale del paziente, ossia com’è il suo universo emotivo ed affettivo, la sua famiglia, la vita sociale e così via, ma anche al vissuto di malattia, che tra l’altro è importantissimo per ottenere dati sulla qualità di vita e sull’efficacia delle cure. Una terapia che agisce sul disturbo ma che non migliora la vita del paziente può anche essere scientificamente perfetta, ma è quasi inutile.
Che vi siano dei benefici nel parlare del proprio disagio fisico lo dimostra anche la medicina basata sulle prove. Una revisione della letteratura scientifica in materia condotta nel 2010 da Stefania Polvani, sociologa alla testa della Struttura di educazione alla salute e del Laboratorio sperimentale di medicina narrativa dell’ASL 10 di Firenza, ha trovato studi che dimostrano un miglioramento delle relazioni tra paziente, famiglia, medici e personale sanitario, l’esecuzione di diagnosi più aprofondite, un miglioramento delle strategie di cura e in generale una riduzione della sofferenza. Non solo: la narrazione favorisce una migliore adesione alle terapie e permette al medico di verificare se effettivamente il malato segue i suoi consigli. Vi sono poi anche ricadute "di sistema": la qualità dei servizi sanitari migliora, o perlomeno viene percepita come migliore, aumenta il materia utile per mettere a punto nuove strategie di cura e viene promossa la formazione di comunità che aiutano il paziente a livello sociale e psicologico, in poarticolare nel caso di malati cronici.
Fonte: Mente & Cervello
09/07/2014