Conservare posti di lavoro e puntare alla fusione dei servizi: è la ricetta di due grandi coop milanesi per risalire la china della crisi senza tradire la propria natura. L’analisi di Massimo Minelli (Consorzio Farsi Prossimo) e Oliviero Motta (Cooperho)
MILANO – La crisi dilaga ma le cooperative sociali tengono duro. La ricetta della sopravvivenza? Per il presidente del consorzio "Farsi Prossimo" Massimo Minelli sta nel "mantenere inalterata l’occupazione, rinunciando agli utili". Mentre per il presidente di "Cooperho" Oliviero Motta la cura ai tagli del sociale è "l’aggregazione delle associazioni, quelle più piccole, per ampliare l’offerta dei servizi riducendo i costi". Che il privato diventi la nuova ciambella di salvataggio non ci pensano proprio né Minelli né Motta. E da un principio non si può prescindere: uscire dall’empasse economica non può tradursi nell’abdicazione alla natura e agli scopi del sistema cooperativo, "che al centro ha la persona e la non remunerazione del capitale" ribadisce Minelli.
Tra la cooperativa e l’impresa profit va mantenuta la differenza. Ma l’ultima manovra non ne ha tenuto conto. "L’ingresso della tassazione nel mondo delle onlus è sbagliato -commenta Massimo Minelli- e frutto di un pregiudizio secondo cui le cooperative inseguono una competizione irregolare a dispetto delle altre imprese". Colpire le cooperative significa punire la società: "Se interrompessimo soltanto un giorno i nostri servizi, una fetta di Milano si paralizzerebbe" continua. E poi "c’è il rischio di peggiorare la qualità dei servizi, favorendo i lati più brutti del fare impresa" dice Oliviero Motta di fronte alla corsa ai ripari pensata dal Governo. Il consorzio Farsi prossimo, che nel 2010 ha registrato un ricavo di due milioni di euro, a fine anno non prevede un bilancio in perdita. "Confidiamo nella nostra capacità di produrre beni economici ed etici -afferma il suo presidente-. Vero è che, avanti di questo passo, prima o poi subiremo delle perdite che si tradurranno nella diminuzione degli investimenti, forse anche del personale, che oggi è composto da 1.036 operatori distribuiti in 13 cooperative" prosegue.
Tutta colpa della finanza se gli equilibri dell’economia deflagrano. Lo pensano entrambi, Minelli e Motta, per i quali l’unica alternativa valida alla logica del mercato è il no profit. "Il collasso finanziario è visibile nel ritardo dei pagamenti da parte di chi ha ricevuto le nostre prestazioni" dichiara il presidente di Cooperho, che raggruppa sei cooperative di tipo B e nove di tipo A nell’area nord-ovest di Milano, con un valore della produzione aggregato di 29.119.332 euro relativo al 2010. "Trasformarsi" è l’imperativo declinato al futuro. "Le cooperative di tipo B possono aprirsi al libero mercato: le attività legate al verde, ad esempio, possono interessare anche il semplice cittadino" spiega Oliviero Motta. Lo stesso non vale però per quelle di tipo A "perché sono nate sull’onda di una domanda pubblica" continua. E allora perché non provare a fondere i servizi delle cooperative medio-piccole? "Così gli interessi da pagare all’istituto di credito sono minori" propone Motta. Cooperho, in tutto 632 soci lavoratori, lo ha fatto: "Abbiamo trasferito il personale e i servizi gestiti direttamente dal consorzio (trasporto per disabili, inserimento lavorativo, animazione territoriale e centri giovanili) alle cooperative socie: ora ci limitiamo a un supporto orientato allo sviluppo (privacy, comunicazione, sicurezza, rete sul territorio).
Il modello anglossassone della "Big society" (tagliare la spesa pubblica e coinvolgere i privati nelle politiche di welfare) non fa tendenza, anzi non porterebbe da nessuna parte. "Al di là delle fondazioni, le ditte private sono tendenzialmente piccole e fanno fatica a campare, figurarsi se devono anche donare parte del ricavato alle cooperative!" esclama Minelli."Dipendiamo per il 70% dall’ente pubblico -conclude-. Non possiamo contare sui privati, il cui reddito va assottigliandosi diventando incapaci di comprare il servizio". Motta vede in determinate scelte politiche la causa del naufragare dell’economia italiana: "Basterebbe ridurre i costi della politica e delle armi, ad esempio, per risollevarla". Un motivo in più per non aggrapparsi alla buona volontà dei cittadini o al welfare 2.0 quale unica àncora di salvezza".
di Chiara Daina
Fonte: superabile.it
26/09/2011