Trenta ore per la vita al via con il progetto “home”

Trenta ore per la vita al via con il progetto “home”

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di Rosa Mauro

«Cara Temple Grandin – scrive Rosa Mauro, rivolgendosi a una delle più celebri personalità affette da un disturbo dello spettro autistico -, hai ragione, meglio piangere che aggredire, urlare, e inveire contro gli altri, perché quando si urla e si inveisce, non si ascolta più. E una società che ama di più chi non ascolta è preoccupante e un poco disumana. Per tornare ad essere individui integri, lasciateci piangere»

C’è un libro meraviglioso che ogni genitore di un ragazzo autistico dovrebbe leggere. Anzi, di più, c’è un libro meraviglioso che dovrebbe essere letto nelle scuole, perché sarebbe molto più utile di mille giornate sull’autismo.

Si tratta del Cervello autistico. Pensare oltre lo spettro di Temple Grandin* (con Richard Panek). Non solo un grande testo sulla biologia, fisiologia e sulle ultime scoperte riguardanti l’autismo in tutte le sue forme, ma anche un’ottima scuola per chi con l’autismo ha a che fare e un manuale indispensabile per chi ancora giudica l’autismo come una questione di rapporto madre-figlio o come una psicosi da curare con i farmaci.

È un libro troppo importante per dedicarvi un solo articolo, motivo per cui questo sarà presumibilmente solo il primo degli interventi in cui lo citerò. Il primo, ma non il meno importante.

Io non so – e forse non saprò mai – se sono o meno una aspie [persona con sindrome di Asperger, forma di autismo cosiddetta “ad alto funzionamento”, N.d.R.]. Il mio punteggio per la neurodiversità è piuttosto alto, ma non ho voglia di recarmi da un sedicente specialista che confermi o smentisca. Quello che so, però, è che Grandin parla anche a me quando osserva che si dovrebbe piangere invece di urlare per la frustrazione o, peggio, aggredire verbalmente le persone. Grandin suggerisce di trovare un posto magari un po’ isolato per sfogare queste lacrime, e tornare poi a vedere il mondo con più calma, come fa lei quando si trova in una situazione frustrante.

Quello che mi chiedo, però, è se lei comprende che le viene concessa la possibilità di piangere perché si chiama Temple Grandin ed è una famosa professionista. Mi chiedo – e le chiederei se potessi – chi ci lascia davvero lo spazio per piangere.

La mia mente va a quando ero bambina e sembravo sapere istintivamente che piangere scaricava la mia frustrazione per un mondo che per me era troppo emotivamente carico. Ricordo che la mia estrema sensibilità urtava contro i canoni del cosiddetto bon ton delle brave bambine tranquille, per cui ero quella che si sarebbe definita come una “piagnona”.

Ricordo però anche come sono stata “guarita” da questa che era ritenuta una cosa sconveniente e maleducata: lo scherno anche dei miei familiari, come mia nonna, mia madre, i miei fratelli. I maestri a scuola, occupati ad osservarlo come segno di immaturità.

Già alle medie piangevo molto meno e facevo male di più, aggredendo i miei fratelli e sorelle – ovviamente altra cosa proibita – ma sentivo di non avere altra scelta. Nessuno doveva vedermi piangere, e posti dove piangere senza essere disturbata non ce n’erano. Ricordo quando piangevo di dolore e frustrazione da adolescente, con il mobbing incrociato di insegnanti e alunni, giudizi sulla mia debole personalità, e tutta questa storia è continuata, finché, invece di piangere, io preferisco urlare ed essere aggressiva.

È la strada sbagliata, secondo Temple, e io concordo… Ma mi chiedo chi mai in questo mondo ci lascia il tempo e lo spazio per piangere. E non mi riferisco al compiangersi, al piangersi addosso sbagliato di chi non vuole cambiare la sua vita, mi riferisco al piangere per cercare sollievo per un’emozione, un momento di ansia, ma anche di gioia. Mi riferisco al piangere invece di esplodere di fronte a una persona che ci mette a disagio. Ma credete si possa fare? Lo possiamo davvero fare?

Siamo in un mondo in cui chi urla viene quasi apprezzato, invitato nelle trasmissioni televisive, ammirato per la sua capacità di essere coraggioso. Ma piangere non è forse un’emozione umana, da poter vivere, da imparare a vivere, senza vergognarsene?

Al di là di una forma di autismo o di una sindrome di Asperger, credo che a tutte le età dovrebbe esserci abbastanza rispetto e spazio per lasciare piangere una persona, lasciarla vivere un’emozione che ha dentro di sé senza giudicarla. Anzi, io prendo spunto dalla Grandin per chiedere qualcosa di ancor più innovativo: ci sono scuole che insegnano a ridere, e direi che ce ne dovrebbero essere anche di quelle che insegnano a piangere, a poter essere deboli, vulnerabili, a lasciare andare i sentimenti negativi in questo modo anziché urlando e sbraitando.

Sarebbe essenziale insegnare anche a riconoscere il proprio pianto, permettendo a quello “positivo”, di sfogo, di esprimersi, ma anche sapendo decodificare quel pianto che richiede aiuto, e che spesso, non ascoltato, può arrivare anche ad uccidere. Sì, ad uccidere, come quei ragazzi che tentano di farla finita, spesso riuscendoci.

Mi immagino una scuola così rispettosa dell’alunno che quando questi scoppia a piangere lo fa alzare, andare fuori dalla classe con un amico e comunque lo indirizza a un luogo tranquillo dove possa calmarsi, senza giudicarlo e anzi dicendo agli altri che avere un momento per piangere è lecito e a volte indispensabile.

Io l’avrei voluta questa scuola. Mi chiedo se anche questa non potrebbe cominciare ad essere inclusione, il rispetto del modo di accogliere le emozioni di tutti, e la non divisione tra emozioni “lecite”, sorridere, esaltarsi, gasarsi, e “illecite” quali piangere.

Chi piange non è debole, non è immaturo, potrebbe semplicemente avere bisogno dello spazio necessario ad accettare una nuova condizione, una nuova relazione, negoziare un dialogo con qualcuno che non si conosce bene, o che rappresenta un problema emotivo.

Avessi potuto piangere, con la mia prof di greco, non l’avrei aggredita verbalmente. Ma lei aveva avuto tre anni per comprendere il mio pianto, e lo aveva usato contro di me.

Cara Grandin, hai ragione, meglio piangere che aggredire, urlare, e inveire contro gli altri, perché quando si urla e si inveisce, non si ascolta più. E una società che ama di più chi non ascolta è preoccupante e un poco disumana.

Per tornare ad essere individui integri, lasciateci piangere.

*Celebre zoologa americana con autismo, Temple Grandin è famosa anche per avere inventato la cosiddetta “macchina degli abbracci” e per avere rivoluzionato le pratiche per il trattamento degli animali negli allevamenti di bestiame. La sua vita è stata portata sugli schermi del cinema dal film di Mick Jackson, Temple Grandin – Una donna straordinaria.