«La “sindrome della capanna” – scrive Antonio Giuseppe Malafarina – è la paura di uscire di casa che alla fine del lockdown ha colpito molti. Ne soffro anch’io. E ne soffrono tantissime persone quando sono costrette a restare a casa per lunghi periodi. Il mondo là fuori inizia a fare paura. Alle volte, però, il coraggio è solo la risposta alla paura di stare fermi. La vita va affrontata, per non restarne oppressi. Passo dopo passo. Tappa dopo tappa, dalla capanna alla luna».
Aperte le porte c’è un mondo che aspetta, fuori. La gente di corsa a riempirlo, a esplorarlo nuovamente come se prima non lo avesse mai vissuto. Forse la lontananza, il desiderio soffocato, ne ha enfatizzato i contorni. Forse è solo il bisogno di non stare dove si è. Ed è proprio fra il non stare e l’affrontare che nasce quella che gli esperti chiamano “sindrome della capanna”. La paura di uscire di casa che alla fine del lockdown ha colpito molti. Ne soffro anch’io. E ne soffrono tantissime persone quando sono costrette a restare a casa per lunghi periodi. Il mondo là fuori inizia a fare paura.
Senza voler effettuare una disamina psicanalitica, quando passi molto tempo in un ambiente, quello diventa il tuo ambiente di riferimento. Ti relazioni con quel contesto e il resto, piano piano, svanisce. Anzi, diventa altro. Vedi sempre le stesse cose, frequenti gli stessi spazi, incontri gli stessi volti e persino il tempo assume una dimensione individuale.
Se non fosse per lo scandire di certi rituali, come il ripetersi di colazione, pranzo e cena, potresti perdere la concezione del tempo solare, che è quello con cui fa i conti il nostro organismo.
Ho passato mesi nell’arco della vita in reparti illuminati solo dalla luce artificiale. Senza la percezione fisica dell’alternanza giorno e notte il corpo risente. Si abitua, ma resta confuso. Vivi in una dimensione tua, dove un giorno si distingue dall’altro non perché c’è stata di mezzo una notte buia, bensì perché è cambiato il turno degli infermieri. Oppure perché alla televisione è passato il telegiornale e cose del genere. Come nelle lunghe notti mensili nei pressi dei poli.
Alla lunga si innesta un’estraniazione dalla realtà, ovvero si costituisce una realtà tanto personale da rischiare di rimanerci imprigionati. Il bisogno di uscire, in alcuni casi all’insaputa della tua psiche quantomeno a livello cosciente, viene meno. Le circostanze creano un ambiente per cui qualcun altro mantiene i rapporti con l’esterno al posto tuo. E via via che la situazione si prolunga, la tua psiche si adegua, smettendo di avere bisogno dell’esterno. Lo so bene, mi capita quando per il freddo passo settimane in casa.
Ma non è tutto, perché più ti abitui a stare, più scegli di stare dentro. Il tuo organismo, con le sue componenti tangibili e con i suoi fattori immateriali, si adatta così bene a quella situazione che ci si adagia dentro. Vi si accomoda sfacciatamente convinto di essere autosufficiente. L’esterno diventa superfluo e progressivamente ignoto, fino a trasformarsi in “terribile”.
Dal pensare perché uscire al come si sta bene qui al chi me la fa fare si fa in fretta. E da quel chi me la fa fare al che paura ad andare là fuori è un tutt’uno. Dalla pigrizia al terrore ci vuole poco. Veramente poco. Capita così automaticamente che non te ne rendi conto.
Dentro tutto è a portata di mano. Fuori c’è il rischio. Dentro sei protetto. Fuori può capitare di tutto. Scatta un senso di autoprotezione così potente che solo il pensiero di uscire ti fa piombare in un mucchio di paure. L’ignoto non è controllabile. E non importa se quell’ignoto ti era noto sito a qualche settimana fa. Ora non lo è più.
Fuori potrebbe succedere qualunque cosa. Dentro la puoi controllare, fuori? Fuori no. Fuori non hai le certezze che hai dentro. La paura avanza. Tu provi anche a reagire, ma appena ti affacci sulla soglia di casa inizi a sentire cose che non sentivi. Tutto è amplificato dal tuo stato di perenne allerta.
Si generano tuoi pensieri assolutamente ragionevoli che, obiettivamente, sono catastrofici e decisamente improbabili. Inizi a convincerti che potrebbe anche colpirti un corvo impazzito, accanendosi ripetutamente contro la tua nuca e cose del genere. D’altra parte se qualcuno ha girato un film su un’opportunità simile forse non è proprio campata per aria.
Da fuori tutto sembra abbastanza assurdo, in verità non lo è. Prima cosa, perciò, rispetto per chi versa in queste condizioni, che i suoi motivi li ha. Le persone con la “sindrome della capanna” devono essere comprese. La sindrome non coincide con un disturbo mentale, dicono gli esperti, tuttavia indica un malessere. Un malessere che passa.
Basta lasciarsi scorrere addosso la vita. Basta uscire di casa, che una volta usciti le cose sono meno peggio di quelle che sembrano. Fuori, poi, scatta quel processo di distrazione per cui smetti di lasciarti trascinare dal vortice di pensieri cattivi. Rompi la spirale e ti senti meglio. Se ci ragioni sopra, una volta affrontato l’esterno, ti rendi conto che uscire si può. E la vecchia rassicurante routine dell’ambiente chiuso inizia a perdere il suo status di privilegiata.
Il segreto sta nel procedere per piccoli obiettivi. Tentare di varcare l’uscio per affrontare un ambiente distante centinaia di chilometri può non essere la scelta migliore. Può funzionare, ma meglio scegliere mete vicine, dove ci si sente più sicuri. E se ci si fa accompagnare dalle persone giuste, quelle che sanno darti la carica anche semplicemente tenendoti spensierato, meglio. Uscita dopo uscita le distanze si allungano.
La vita è costellata di traguardi, di punti di svolta. Alcuni li definiamo noi, altri càpitano. Possiamo prefiggerci degli obiettivi e raggiungerli, e questi sono traguardi definiti. Ma ci sono svolte indipendenti da noi, come un dramma improvviso o un successo inatteso. Il coraggio alle volte è solo la risposta alla paura di stare fermi. La vita va affrontata, per non restarne oppressi. Passo dopo passo. Tappa dopo tappa, dalla capanna alla luna.
Fonte: Superando.it
04/06/2020