Io ho fiducia nel futuro ogni giorno cerco la felicità

Io ho fiducia nel futuro ogni giorno cerco la felicità

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Paraplegica dopo un incidente, è vicina alla laurea in Medicina: «La disabilità non è un problema circoscritto a chi sta su una sedia a rotelle, tutti dovrebbero garantire un mondo accessibile.

Dieci anni per tornare a vivere. La veronese Carlotta Damiani racconta la sua storia. Nel 2010, quand’era studentessa al liceo classico Maffei, cadde dallo scooter guidato dal suo ragazzo. Un terribile volo sull’asfalto viscido davanti alla basilica di San Giorgio. A causa di quell’incidente rimase paraplegica. Oggi ha 28 anni, le mancano pochi esami per laurearsi in Medicina all’Università di Ferrara e collabora come consulente con l’Istituto di Montecatone (Imola), un ospedale di alta specialità per la riabilitazione intensiva, punto di riferimento a livello nazionale, con più della metà dei pazienti che provengono da altre regioni. Fra questi anche il maresciallo Giuseppe Giangrandi, il carabiniere medaglia d’oro al valor civile colpito davanti a Palazzo Chigi sette anni fa.

Carlotta, quando è cambiata la sua vita?Il 10 marzo 2010, dieci anni fa. Avevo diciotto anni, ero sullo scooter del mio ragazzo, aveva nevicato.E poi?Fotogrammi rapidi: cadere, sbattere, non sentire più le gambe, piangere, sorridere, cercare di capire.Le hanno detto subito cos’era capitato?No. Dopo un intervento, la terapia intensiva, due ospedali e i primi giorni di riabilitazione, entra in camera una dottoressa e mi chiede che cosa mi aspetto. Di mettermi seduta e magari in piedi, le rispondo. E lei mi dice: seduta sì, in piedi te lo auguro con i progressi della scienza.Reazioni?Mi sono buttata sui libri per superare la maturità classica e poi i test di ammissione a Medicina.Che cosa l’ha aiutata?Andare a vivere fuori subito dopo le dimissioni.

Mi sono trasferita in settembre a Ferrara, sede dell’Università. Mi rendo conto di esser stata un po’ incosciente, ma è stata una scelta fondamentale. Anche se a volte non è stato facile per via della precarietà della situazione. Mi sembrava di vivere una specie di gioco dell’oca. Avanzavo di due caselle e poi retrocedevo di cinque. Colpa della salute altalenante, che non mi permetteva di fare tutto quello che avrei voluto. Cos’è cambiato dopo l’incidente?Sono crollati tre pilastri: famiglia, amore, amicizia, almeno per come li conoscevo prima. C’è voluto molto tempo perché la mia vita si riassestasse. Col tempo ho capito che l’incidente non coinvolge solo a chi ne è vittima, ma anche chi ti vuole bene. Solo quando riesci a superare la fase più aspra del tuo dolore puoi permetterti di comprendere quello degli altri.Il suo ragazzo?Ci siamo lasciati un anno dopo. Ma abbiamo parlato apertamente della caduta solo dopo cinque anni. Non lo incolperò mai, è stata una fatalità.E la gente, gli amici, gli affetti?Mi guardavano con occhi diversi, anche involontariamente. All’inizio ho cercato di adattarmi a tutte queste novità, non rendendomi conto che l’unica cosa che si era rotta, insieme al midollo, ero proprio io, dentro.Vie d’uscita?Visto che non riuscivo a liberarmi del mio dolore ho deciso di conviverci. Io dico sempre che ho mangiato il mio dolore.

Le piace mettersi alla prova?Qualche anno fa, anche se non ero in forma, ho deciso di andare a Polistena, con Libera di don Ciotti. Era agosto e c’era un campo di volontariato sulla corruzione in ambito sanitario. Sveglia alle sei per spietrare agrumeti, lavoro nei campi sotto il sole che bruciava nella Piana di Gioia Tauro, doccia, un boccone al volo e poi tanti incontri con magistrati, giudici, medici, parenti delle vittime della mafia fino alle due di notte. Per la prima volta, tra persone completamente sconosciute, sono stata bene perché non ho avvertito nessuna occhiata pietosa, curiosa, intrigante. Vedevano solo me, Carlotta, dando il giusto peso alle mie esigenze, ma senza distanze. Cos’è il pregiudizio?Un «tenere a distanza», appunto, sia che esiti in uno sguardo di troppo sia che emerga in uno sguardo mancato. Chi non fa questo sono i bambini, che ti guardano con occhi curiosi e magari ti chiedono: «Perché sei seduta?».Da qualche anno è consulente a Montecatone, vicino a Imola, uno dei centri più avanzati d’Italia…Porto il mio vissuto e rispondo alle domande di chi ha subito una lesione come la mia. Si parla di tutto, dagli argomenti più leggeri a quelli più tecnici, ma soprattutto cerco di rispondere a domande più intime che pochi hanno il coraggio di porre e molti, dall’altra parte, nemmeno ascoltano.Obiettivo?Aiutare su questioni pratiche e far emergere lo spirito di sopravvivenza che c’è dentro ognuno di noi. Normalizzare per concedersi di essere se stessi, ciascuno a suo modo. Perchè la infastidiscono quelli che dicono «Però, che forza d’animo quella ragazza, io non sarei stato in grado…»Quelli che ci dipingono come «super» vogliono solo esorcizzare il senso di impotenza verso l’imprevedibile. Questo modo di pensare aumenta le barriere culturali.Chi sono le persone con disabilità?Persone. Bisogna sforzarsi di capire il concetto di normalità della diversità. La disabilità non è un problema circoscritto a chi sta sulla sedia a rotelle. Ogni persona dovrebbe darsi da fare per garantire e garantirsi un mondo accessibile, fisicamente e culturalmente, cosicché, qualsiasi cosa capitasse, non ci sarebbe alcun bisogno di normalizzare, cioè di rendere normale la diversità. Cos’è la carrozzina?Un’occasione. Mi ha permesso di capire che, qualsiasi cosa possa capitare, restando fedele a se stessi, alla fine, si può venirne fuori. E se le cose non andranno sempre bene, potranno comunque andare meglio. (Poi tace a lungo) Perchè non parla più? I giovani a volte non ci pensano, ma le cose brutte possono succedere. Eppure, nonostante le barriere architettoniche, i menefreghisti che parcheggiano dove non dovrebbero, i politici distratti, gli amministratori che non fanno rispettare le leggi, io ho molta fiducia nel futuro. Bisogna continuare a muso duro e lottare ogni giorno verso la felicità.

Fonte: l’Arena.it

07/09/2020