In base alle risposte di circa 400 persone che assistono familiari con disabilità, quasi il 60% dei caregiver denuncia un appesantimento del carico assistenziale sulle proprie spalle e dichiara di non poter contare su alcun aiuto. Il 75% chiede didattica domiciliare anziché a distanza
ROMA. L’emergenza Covid continua e si aggrava: così come si aggravano le condizioni di vita dei caregiver familiari. A rilevarlo è il sondaggio realizzato da Confad, il Coordinamento nazionale famiglie con disabilità, che ha coinvolto circa 400 persone che, in tutta Italia, assistono in modo continuativo e spesso esclusivo familiari con disabilità. Ne emerge un quadro allarmante, che racconta la fatica e la solitudine di chi, in questo complicato periodo, ha visto appesantirsi una condizione già tanto gravosa e ridursi servizi e sostegni già insufficienti.
Il primo problema si chiama scuola
Guardando ai principali dati, emerge innanzitutto il problema della scuola, sia essa chiusa o a distanza (il che cambia poco, evidentemente, nel caso degli alunni con disabilità): “Nel 75% dei casi – si legge nel report – i caregiver familiari intervistati hanno evidenziato l’assoluta necessità di organizzare lezioni domiciliari, e non didattica a distanza, per gli alunni con disabilità in caso di nuovo lockdown”. Servizi fondamentali come l’assistenza alla comunicazione e all’autonomia si sono fermati insieme alla scuola in presenza: “Nel 70% dei casi non sono state recuperate le ore non utilizzate a causa della chiusura delle scuole”, riferisce Confad. E con l’inizio del nuovo anno, i servizi tuttora arrancano: “In seguito alle misure restrittive emanate durante l’emergenza, oltre l’ 80% degli intervistati ha dichiarato di non essere stato contattato dalla scuola in merito ai protocolli per il trasporto scolastico delle persone con disabilità. Una persona su tre ha dichiarato che non è ancora stata assegnato l’ insegnante di sostegno all’alunno con disabilità, ed è quindi evidente come sia di fatto pregiudicato il diritto all’istruzione per queste persone”.
Le strutture, i centri e gli operatori
C’è poi il problema dell’isolamento delle strutture residenziali: “Un altro dato drammatico è emerso in relazione alle persone con disabilità inseriti in strutture residenziali: in questo caso – riferisce Confad – oltre il 33% degli intevistati ha affermato di non avere mai avuto l’ autorizzazione a tornare a far visita ai familiari residenti in strutture protette”: neanche prima che la nuova ondata si aggravasse e rendesse necessaria una nuova chiusura all’esterno di queste strutture. Parziale è stata anche la riapertura dei centri, dopo la chiusura di marzo: questi “sono stati riaperti con orario minimo o ridotto nell’83% dei casi: da ciò – osserva Confad – si può facilmente intuire che tutto il carico di accudimento e assistenza è stato assunto ancora una volta dal caregiver familiare e dalla famiglia della persona con disabilità”. Per quanto riguarda gli operatori a diretto contatto con le persone disabili, “il 20% degli intervistati ha dichiarato che questi non hanno eseguito alcun protocollo anti-covid, ed uno su tre ha confermato che non risultano monitoraggi anti-covid per il personale”. Inefficaci anche le attività a distanza: “Per le persone con disabilità che non frequentano centri o scuole, sono state effettuate attività in remoto che sono state valutate inutili o inadeguate nel 70% degli intervistati”.
Alla luce di questi dati, letti nel loro insieme, emerge chiaramente come si sia aggravato, nella cosiddetta “fase 3” della pandemia, “il carico di attività per i caregiver familiari rispetto alla fase 1, rilevato nel 57% dei casi, così come nella stessa percentuale è stata l’ affermazione di non poter contare su nessun aiuto”.
Se questa è la situazione, qual è però la causa e quale potrebbe essere, di conseguenza, la soluzione? La parola chiave è “servizi territoriali”, che già da anni sono stati sacrificati a quella “aziendalizzazione del sistema sanitario” che ora mostra tutta la sua inadeguatezza e insufficienza. E’ quanto spiega, nell’introduzione del report, Marco Ruini , neurochirurgo e neurologo, direttore scientifico della rivista di Neuroscienze Anemos. “Negli anni 80 e 90 si è tanto investito sul territorio, sui servizi alla persona, sulla rimozione delle barriere, sulle pari opportunità, sulla prevenzione – scrive – Già da vari anni, però, l’aziendalizzazione del sistema sanitario ha concentrato i pochi investimenti solo sulle strutture ospedaliere e il territorio è via via rimasto sguarnito di presidi e di personale, rovinosamente a danno delle persone con disabilità e le loro famiglie impegnate, in assoluto abbandono, alla cura delle fragilità interne alla famiglia stessa”.
E’ evidente che “il sistema di sostegno alle fasce deboli era già entrato in crisi prima della pandemia Covid – afferma Ruini – Quando questa si è abbattuta anche sul nostro paese, la drammatica situazione delle case di riposo e le gravi ripercussioni sulla popolazione anziana sono stati gli eventi avversi più evidenti, la morte ha più colpito le nostre coscienze. Ciò che poco è apparso, è la mancanza di risposte riguardo a quelle situazioni di disagio prima elencate, tra le quali l’isolamento delle persone con disabilità che, in buona parte del territorio, hanno ricevuto la sola assistenza dei familiari, a supplire ogni necessità con la prevedibile difficoltà nel ricevere le cure mediche e soprattutto superare gli scogli relazionali dovuti alla spaventosa dimenticanza del sistema”.
E’ così accaduto che “le famiglie sono state investite dall’aumentato peso assistenziale, da stress e tensioni aggiuntive, e sono a volte arrivate al punto di rottura”. E’ queste famiglie che il sondaggio ha voluto dar voce, portando allo scoperto un pezzo di mondo che soffre forse più di altri questo momento di grande preoccupazione ed emergenza sanitaria.
Fonte: Redattore Sociale
04/11/2020