Sarebbero 44.000 i giovani italiani che hanno sperimentato, almeno una volta nella vita, il ritiro sociale volontario per almeno sei mesi mentre altri 67.000 sarebbero a rischio di vivere questa condizione, a fronte di una mancanza di sostegno adeguato da parte della scuola e della società. È quanto emerge da uno studio sulla popolazione studentesca che fornisce una prima stima attendibile di questo fenomeno.
Il nome con cui vengono indicati in tutto il mondo è hikikomori, una parola giapponese che può essere approssimativamente tradotta come “stare in disparte” e che descrive il fenomeno per cui tante persone, soprattutto adolescenti e giovani, si isolano in casa evitando per tempi prolungati contatti diretti con gli altri, rompendo l’isolamento dal mondo esterno spesso solo attraverso l’universo virtuale. In Giappone il fenomeno è oggetto di studi già da … Il nome con cui vengono indicati in tutto il mondo è hikikomori, una parola giapponese che può essere approssimativamente tradotta come “stare in disparte” e che descrive il fenomeno per cui tante persone, soprattutto adolescenti e giovani, si isolano in casa evitando per tempi prolungati contatti diretti con gli altri, rompendo l’isolamento dal mondo esterno spesso solo attraverso l’universo virtuale. In Giappone il fenomeno è oggetto di studi già da decenni, ma numerosi casi di hikikomori sono registrati in molte parti del mondo e non sempre questi giovani riescono a trovare nella società e nei servizi educativi e sanitari un adeguato supporto.
In Italia fino a oggi mancavano dati attendibili che permettessero di stimare la prevalenza del problema, ma un passo importante è stato compiuto attraverso uno studio quantitativo condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IFC), su iniziativa del Gruppo Abele, associazione attiva da lungo tempo nella lotta alle dipendenze, all’emarginazione e con finalità di cooperazione internazionale.
I dati sugli studenti italiani
La ricerca ha preso le mosse dalle rilevazioni ESPAD®Italia (European school Survey Project on Alcohol and other Drugs), che si ricollega a un progetto europeo che raccoglie dati sull’uso di droghe e sostanze psicoattive nei giovani, ed è stata condotta su un campione di oltre 12.000 studenti rappresentativo della popolazione studentesca italiana tra i 15 e i 19 anni. Dalle rilevazioni emerge che il 2,1 per cento degli studenti si identifica come hikikomori, un dato che, riferito all’intera popolazione scolastica italiana, equivale a una stima di 54.000 studenti che si rispecchiano nella definizione. Il 18,7 per cento afferma di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e, tra questi, l’8,2 per cento non è uscito per un tempo da uno a sei mesi e oltre. Dalle proiezioni si può stimare come circa l’1,7 per cento degli studenti e delle studentesse totali (44.000 a livello nazionale) si possa definire hikikomori, avendo sperimentato, almeno una volta nella vita, il ritiro sociale volontario per almeno sei mesi, mentre il 2,6 per cento (67.000) sarebbe a rischio grave di diventarlo.
Le motivazioni del ritiro
Sonia Cerrai, epidemiologa del CNR-IFC e membro del gruppo di ricerca che ha curato lo studio, ci aiuta a fare il punto sulla questione, sulla base di ciò che è emerso. Per esempio, è importante chiedersi quali siano le ragioni alla base della scelta del ritiro sociale da parte di tanti giovani. “Le motivazioni per scegliere l’autoesclusione dalle relazioni sociali – afferma la ricercatrice – possono essere molteplici e quasi tutti possiamo aver attraversato periodi in cui non ci andava di frequentare nessuno. Ma spesso si tratta di una fase transitoria, magari legata a eventi specifici, che, per quanto lunga, sappiamo di non voler mantenere indefinitamente. Nel caso degli hikikomori, invece, l’isolamento volontario rappresenta una soluzione drastica a una difficoltà di gestione delle relazioni. Un po’ come se si gettasse la spugna perché ci si mette in discussione e non ci si ritiene capaci di instaurare legami senza sofferenza. La casa o la propria stanza rappresentano un nido sicuro, dove congelare il tempo e in un certo senso evitare di crescere. Da una parte c’è la protezione delle mura familiari, dall’altra la presenza di quelle comodità che consentono un’effimera ma salvifica evasione, come Internet, la musica, lo smartphone, ma anche la privacy del proprio spazio vitale. E riducendo al minimo tutti gli scambi fisici può sembrare di sentirsi più al sicuro.” Le ragioni sociali del disagio Se si cerca di scavare più a fondo nelle motivazioni, dalle risposte raccolte con la ricerca ci si accorge che la percezione della profondità del proprio disagio talvolta sfugge anche ai diretti interessati.
Continua Cerrai: “Se lo chiediamo espressamente ai ragazzi, come abbiamo fatto attraverso lo studio, la motivazione più frequentemente riportata è relativa a problemi di natura psicologica; ma riferiscono anche, semplicemente, di non avere voglia di vedere nessuno, o di avere rotto con il partner o con gli amici. Quello che sappiamo è che la spinta verso l’isolamento sociale volontario è spesso scatenata da un vissuto di inadeguatezza percepita e di insostenibilità della propria esposizione a scuola, in una società improntata al raggiungimento del successo, che chiede ai ragazzi di essere sempre iperperformanti, popolari, di collezionare like”.
Naturalmente, i dati ora raccolti si integreranno nel tempo con quelli di nuove rilevazioni, che permetteranno di correggere le conclusioni e di costituire una base dati sempre più utile per programmare interventi specifici. Sottolinea, infatti, Cerrai: “Questa ricerca ha permesso di fornire una prima stima effettiva del ritiro sociale volontario nella popolazione studentesca a livello nazionale, ma per correggere idee e stereotipi, o meglio ancora per capire quali fattori siano associati, in senso sia positivo sia negativo, al fenomeno, dobbiamo continuare il monitoraggio, sempre attraverso lo studio ESPAD®Italia, che il nostro Laboratorio di epidemiologia e ricerca sui servizi sanitari del CNR conduce nelle scuole superiori di tutta Italia ogni anno dal 1999. Questo ci consentirà di ampliare e rafforzare le conoscenze sui diversi aspetti dell’hikikomori. Ricordando però sempre che ogni persona ha una storia a sé, le proprie personali motivazioni e le proprie fragilità; perciò è utilissimo cercare di delineare i profili più a rischio, me sempre mantenendo il focus sull’unicità della persona.” Poco supporto percepito dagli adulti di riferimento Tra i dati più preoccupanti che emergono dalle rilevazioni, c’è quello che riguarda la reazione delle famiglie: fra coloro che si definiscono ritirati più di un intervistato su quattro dichiara che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande, e dati simili emergono a proposito degli insegnanti. Anche se questa percezione da parte di tanti adolescenti non rispecchiasse davvero il vissuto di tutti i genitori e i docenti, il senso di solitudine e di mancanza di punti di riferimento negli adulti che formano la loro rete educativa è segno dell’esistenza di un problema serio e urgente. In questo contesto la scuola è chiamata a esercitare un ruolo di primaria importanza: “Appare chiaro dai nostri dati – aggiunge, infatti, Cerrai – che la scuola è un osservatorio privilegiato e fondamentale proprio nell’intercettazione precoce del disagio giovanile. La buona notizia è che i ragazzi che hanno risposto al questionario, pur avendo già sperimentato il comportamento di ritiro volontario per almeno sei mesi, si trovano ancora nelle maglie della frequentazione scolastica. Questo perché alcuni fattori di protezione sussistono, come l’attenzione dei genitori o certe capacità attrattive della scuola stessa o anche capacità personali dello studente che sta provando a maturare le proprie strategie di gestione del disagio.” © Nicola Marfisi / AGF Come per tutti i problemi che riguardano un complesso intreccio di fattori, è importante che anche gli interventi siano molteplici e coordinati e che riguardino tutti gli elementi coinvolti. “Quello che sembra fondamentale – sottolinea Cerrai – è sensibilizzare le persone, le famiglie, gli insegnanti, per aumentare la consapevolezza, per ridurre lo stigma e perché si possano ravvisare i primi segnali nella maniera più efficace. E sicuramente è necessario fare rete, connettendo le varie realtà che possono aiutare i ragazzi ad affrontare il disagio.”
Le possibilità di avere supporto
Ma quali sono le effettive possibilità, per un giovane a rischio di ritiro sociale, di ricevere un adeguato supporto, in Italia? Continua l’epidemiologa: “A oggi non abbiamo dati quantitativi che ci permettano di valutare con precisione servizi e relative carenze: occorrerebbe una rilevazione ad hoc per comprendere l’attuale situazione anche in base alle specificità delle autonomie regionali, cui compete la definizione dei servizi necessari alla presa in carico delle nuove situazioni di sofferenza. Sappiamo, però, che alcune regioni hanno programmato interventi in merito, altre non ancora, e a livello locale ci sono scuole che già dispongono nel patto formativo il recupero dei ragazzi con certificazione di ritiro sociale, per esempio offrendo attività didattiche a scuola ma in orario personalizzato, oppure sostegno didattico alle famiglie, o ancora attività didattiche svolte a domicilio.” Il problema resta sempre la mancanza di interventi strutturali a tutela della salute mentale degli studenti e delle studentesse.
“A oggi – aggiunge Cerrai – l’attivazione di questi programmi è principalmente legata alla sensibilità del dirigente o del corpo insegnante, proprio perché mancano da una parte criteri diagnostici veri e propri, dall’altra un chiaro approccio di prevenzione e individuazione precoce.” Un piano di prevenzione efficace dovrebbe, infatti, agire su più livelli, primo fra tutti quello della conoscenza, per la quale i dati sono una base importante, per poi passare a una pianificazione chiara, che aiuti tanti adolescenti a non sentirsi lasciati soli a gestire un problema più grande di loro.
“Credo sia sicuramente possibile individuare strategie di prevenzione efficace, partendo dalle evidenze scientifiche, dall’individuazione di fattori di rischio individuali e sociali, nonché dalle buone pratiche già avviate a livello regionale e locale in alcuni contesti.
A livello scolastico si dovrebbe rendere disponibile una formazione specifica per tutto il personale, e su questo gli insegnanti si sono espressi molto favorevolmente, e potrebbe essere prezioso affiancare ai docenti team multi-professionali di psicologi ed educatori.
E intanto attivare i servizi pubblici sulla tematica su tutto il territorio nazionale e sostenere una sollecitazione continua dell’associazionismo genitoriale e dell’opinione pubblica sull’argomento”, conclude la ricercatrice. Tra gli esempi virtuosi di riferimento si può, per esempio, citare il progetto “Nove ¾”, gestito proprio da Gruppo Abele, che prevede una serie di attività che hanno lo scopo aiutare i giovani hikikomori a uscire dal ritiro sociale e che offre anche un supporto alle loro famiglie.
Fonte: le Scienze
01/04/2023