L’ho scritto più di una volta: non c’è accessibilità senza comunicazione. Crea la struttura migliore dell’universo, accessibile o meno, senza farlo sapere e non ci entrerà nessuno. Su una lunghezza d’onda analoga l’intervento di Simona Petaccia dello scorso 20 febbraio alla Camera. Simona, giornalista e presidente dell’associazione Diritti diretti, è una sorridente professionista del turismo accessibile. Con il fascino della competenza e l’amore per i tacchi a spillo colpisce alle caviglie con l’eleganza di un giaguaro.
L’occasione era la conferenza nazionale Co.mo.do. (cooperazione per la mobilità dolce) e Simona era fra i relatori della conferenza Rigenerazione di luoghi, beni culturali e paesaggi da vivere in mobilità dolce. Obiettivo prefissato: la valutazione dell’attualità e le prospettive in tema di mobilità dolce e leggera per il turismo outdoor, ferroviario, equestre e accessibile. Titolo dell’intervento: Coordinarsi per fare rete, comunicazione professionale e cultura dell’accessibilità.
Simona è partita da quesiti che anch’io mi sono posto in altra sede:
– se, dopo cinquant’anni di leggi sull’abbattimento delle barriere architettoniche, persistono barriere e discriminazioni quale ingranaggio della comunicazione ha fallito?
– Perché si è rifiutato questo tipo di benessere?
– Cosa posso fare io per avviare il giusto meccanismo?
La Petaccia ha affrontato i quesiti uno alla volta. Secondo lei c’è stata una comunicazione improvvisata, ovvero incapace di far percepire quanto l’accessibilità possa agevolare lo sviluppo di un territorio e la sua economia. Per quanto riguarda il benessere ha prevalso il richiamo dell’accessibilità a un’idea sanitaria del fenomeno, fra montascale, maniglioni e bagni per l’indefinito terzo sesso. Un’immagine di per sé poco appetibile, estranea alle comuni esigenze di persone sane e avulsa al bello.
Quanto all’avviamento del processo virtuoso Simona ha dichiarato: «Per avviare il giusto meccanismo, con la mia associazione creiamo occasioni d’incontro professionale con amministratori e imprenditori affinché comprendano che bisogna saper coniugare l’accessibilità con la bellezza paesaggistica e la valorizzazione del patrimonio, informando anche i cittadini sulla loro storia e coinvolgendoli nei piani di sviluppo territoriali. Facciamo questo perché siamo convinti che le leggi possano avviare i processi di trasformazione, ma da sole non bastano né a far rivoluzioni né a realizzare trasformazioni culturali come quella che serve al nostro Paese rispetto all’accessibilità».
Simona parla di rivoluzione e fa bene. Io insisto nell’idea che dobbiamo ripensare il concetto di accessibilità parlando di progettazione universale, cioè di una disciplina per rispondere massimamente alle esigenze di ognuno che contamini tutte le discipline che edificano il mondo.
Dobbiamo creare reti fra architetti, amministratori, territorio e ogni elemento che contribuisca a concepire una nuova era del bello. Il bello per tutti. #ilbellopertutti, perché il bello può anche stare nelle casseforti dei nababbi del pianeta, ma è solo quando si espone e diventa di tutti che si eleva a patrimonio dell’umanità.
Fonte: Invisibili
13/03/2018