Presentato fuori concorso all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, “Tutto il mio folle amore” è prodotto da Rai Cinema e Indiana Production. Il soggetto è liberamente ispirato ad un libro di successo, “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas.
Film e libro raccontano un viaggio tra un padre e il suo figlio autistico. Il libro racconta una storia vera, di un rapporto sempre esistito tra i protagonisti, che si evolve con l’esperienza del viaggio.
“Tutto il mio folle amore”, invece, parte da una premessa ben diversa. Willi (Claudio Santamaria) è un cantante, sempre in tournée per esibirsi come il Mimmo Modugno della Moldavia. È il padre naturale di Vincent (Giulio Pranno), un ragazzo sedicenne chiaramente affetto da un disturbo dello spettro autistico, che vive, inevitabilmente ma non per sua scelta, chiuso nel suo mondo.
I due non si conoscono, perché Willi non ha mai voluto conoscere il figlio, che è cresciuto con la madre Elena (Valeria Golino) e suo marito Mario (Diego Abatantuono). Quando Willi decide di andare a conoscere il ragazzo, resta turbato nello scoprire la realtà.
Lo stesso Vincent è sconvolto nello scoprire di avere due padri. Si nasconde nell’auto di Willi e salta fuori quando sono già in viaggio oltre confine. A quel punto, il padre decide di portarlo con sé per qualche giorno. Elena e Mario, invece di aspettarli pazientemente a casa, partono al loro inseguimento.
Gabriele Salvatores ha sempre usato il viaggio come meccanismo narrativo classico.
Per sua stessa ammissione, il viaggio on the road, in particolare, è per Salvatores una struttura a cui tornare ogni tanto, sfruttandone la potenzialità di occasione di trasformazione che possiede nella realtà. In tutti i film di Salvatores (e non solo), da “Marrakech Express” in poi il viaggio è funzionale ai personaggi, per ritrovare se stessi e i rapporti tra di loro.
In “Tutto il mio folle amore” la trasformazione nei rapporti è favorita dal viaggio e dalla strada, ma soprattutto dall’interazione con Vincent., un adolescente che Salvatores definisce un “fool” shakespeariano o un Pifferaio Magico, che si trascina dietro tre adulti, costringendoli a fare i conti con se stessi e a superare la paura della diversità altrui.
Il racconto on the road è molto riuscito. Le immagini sono pensate con colorata nitidezza e connotate di una certa poesia. Non mancano dei piacevoli richiami e omaggi al cinema, ad esempio “Priscilla regina del deserto” e la commedia musicale “Rinaldo in campo” interpretato da Domenico Modugno (scena con Vincent sul cavallo, anziché sull’asino).
Viene tutto accompagnato da una coinvolgente colonna sonora, con canzoni ben scelte e adattissime musiche originali.
Sicuramente le interpretazioni sono di alto livello, a cominciare dal giovane Giulio Pranno, che esordisce con un ruolo davvero impegnativo. Valeria Golino è sempre più convincente nelle sue interpretazioni da mamma. Qui riesce a trasmettere bene quanto può essere difficile il ruolo di una care-giver.
L’interpretazione di Claudio Santamaria è altalenante, ma riuscita nel complesso. È strepitoso nelle scene in cui si esibisce cantando come Modugno e, in generale, nei dialoghi più leggeri con Gulio Pranno.
Non è abbastanza convincente, invece, nelle scene più cariche di emotività con Vincent. In queste, in generale, “Tutto il mio folle amore” risulta un po’ troppo retorico e semplicistico.
Diego Abatantuono e Gabriele Salvatores sono sempre una coppia vincente. Il regista sceglie spesso per l’attore ruoli molto positivi. Da questo, il pubblico intuisce quanto sia profonda la loro amicizia.
Il ruolo di Abatantuono in “Tutto il mio folle amore” è forse quello che al pubblico risulterà più simpatico. È Mario, il padre adottivo del figlio della sua compagna Elena. I padri che lo diventano per scelta, prendendosi cura dei figli di un altro uomo, accogliendo per intero la vita della donna (o dell’uomo) che amano, già è facile stimarli. Ma in questo caso il figlio non è un figlio qualsiasi e la vita del partner è una vita tutt’altro che ordinaria, tutt’altro che facile.
Quindi, Abatantuono è il padre adottivo che tutti vorremmo avere. Ha avuto il ruolo da comprimario forse più interessante, insieme alle battute più belle, perché – come al solito – ironiche, di rottura del dramma, per far entrare normalità in un contesto dove quasi tutto è eccezionale.
Non è che sia facile parlare di autismo o raccontarlo in un film. Ampio è lo spettro di questo disturbo e immani sono le sofferenze, le difficoltà e – a volte – le gioie delle persone coinvolte.
Nel film non c’è nessuna pretesa di carattere scientifico, ci dice un disclaimer. Probabilmente si riferisce alla scene in cui si usa il metodo della c.d. comunicazione facilitata. Di sicuro, la parola “autismo” non viene neanche mai pronunciata. Forse si è stati consapevoli che questo è un racconto molto parziale e non ha nessuna pretesa di raccontare una realtà davvero molto complessa e variegata.
Quindi, vi consiglio di non andare a vedere “Tutto il mio folle amore” per cercare di trovare risposte all’autismo o a come trattare con le persone autistiche, tanto meno con l’aspettativa di ritrovarci un pezzo della vostra esperienza con loro.
Ci troverete, però, dei sentimenti comuni a chi vive certe vite: dal senso di colpa (di origine oscura, come l’autismo) all’incomprensibile vergogna e alla voglia di felicità e di una vita normale.
Ci troverete una storia piena d’amore e di rispetto, con ottimi attori, bellissime immagini poetiche, tanta vita.
Fonte: Culturalmente.it
26/10/2019